All’università di Yale, Alison Liebhafsky si era laureata e poi dottorata nel 1972 sul colonialismo in Ruanda sotto il regno di Yuhi Musinga, e su come i vari gruppi etnici si erano alleati e opposti ai vari governi coloniali in funzione dei reciproci conflitti. Sposata con Roger Des Forges, uno storico della Cina, oltre a studiare il passato nella regione dei Grandi Laghi, nei vent’anni successivi era andata spesso in Ruanda dove, per Human Rights Watch, aveva osservato gli scontri sempre più cruenti tra tutsi e hutu. Dal 1990 era presidente della commissione d’inchiesta, formata anche da altre organizzazioni per i diritti umani, che nel 1993 pubblicò il primo dossier sulle stragi. Il 6 aprile 1994 Monique Mujawamariya che aveva collaborato con la commissione l’aveva chiamata da Kigali: i presidenti del Ruanda e del Burundi, entrambi hutu, erano morti mentre andavano a Bujumbura per una conferenza che doveva rilanciare l’accordo di pace del 1993 tra il governo ruandese dominato dagli hutu e le milizie tutsi del Fronte patriottico ruandese, fondato da Paul Kagame, di base nel Burundi. Il jet privato con a bordo i presidenti era stato abbattuto da missili al decollo da Kigali, si sarebbe appreso [1] . «È la fine», aveva detto Monique, anche lei al corrente dei preparativi di strage. Dieci giorni dopo, assecondata anche dal marito e dai due figli, Alison aveva chiamato i suoi contatti e raccolto testimonianze abbastanza circostanziate da ottenere un appuntamento con gli africanisti del Dipartimento di Stato (il ministero degli esteri americano) e denunciare un genocidio. Gli africanisti piansero, il ministero non fece nulla: il fallimento di Black Hawk Down in Somalia era troppo recente, e proprio allora il presidente della catena di caffeterie Starbucks stava promuovendo l’immagine del Ruanda. Il Pentagono si rifiutò persino di disturbare le frequenze di Radio Mille Collines, creata dal presidente assassinato, che coordinava lo sterminio dei “parassiti” tutsi. L’Onu si limitò a cercare di evacuare gli stranieri.

Le ci vollero mesi, ma Alison riuscì a salvare l’amica. Monique le stava descrivendo al telefono quello che succedeva nel suo quartiere a Kigali, quando un gruppo di uomini sfondò la porta della sua casa. «Per favore, occupati dei miei figli. Non voglio che tu senta questo» e riattaccò.

Appena il Fronte patriottico prese il potere e riaprì l’aeroporto di Kigali, la piccola signora organizzò un’indagine insieme a un gruppo di ricercatori locali e stranieri. Per quattro anni, dove le segnalavano un massacro – continuavano anche alla frontiera con il Burundi e nel Congo orientale – andava ad intervistare assassini e superstiti. Con puntiglio da storica, rintracciò migliaia di documenti, comprese le ricevute per la consegna di 500 mila machete, chi ne era in possesso e da quando.

Sembrava fragile, eppure nulla la fermava: «Era alta un metro e sessanta, con dolci occhi blu e i capelli grigi tagliati dal marito. Viaggiava con una piccola borsa e dentro un costume da bagno, il computer portatile, un cambio di camicia e le foto dei nipotini», ha scritto Elizabeth Rubin sul New York Times. Il suo bagaglio di regole era altrettanto leggero: avere sempre benzina nel serbatoio; parcheggiare sempre con il parabrezza rivolto alla strada; proteggere sempre le proprie fonti e intervistarle dove non saranno viste da nessuno; offrire un passaggio agli autostoppisti, danno informazioni inaspettate.

Le davano a lei che ne parlava le lingue, chiedeva della loro vita, della loro famiglia, parlava un po’ della propria e su richiesta, tirava fuori con una risata da ragazzina le foto di tre bambini paffuti. Convocata come testimone dal Tribunale internazionale per i crimini di guerra, in una sessione dell’Onu o dell’Unione africana, dimostrò che non c’era stata alcuna “esplosione di odio tribale”, lo sterminio dei tutsi e di chi li proteggeva era progettato da anni. E che il Consiglio di sicurezza dell’Onu, i governi di Belgio, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti erano stati informati dei preparativi.

In Leave no one to tell the story, raccontò le atrocità commesse con le parole di chi le aveva inflitte e subite. Nonostante l’Onu citasse 800 mila morti, rifiutò di confermarlo; a lei risultavano circa 500 mila nel genocidio commesso dagli hutu, e 25 mila nei crimini di guerra commessi dai tutsi. Fra il 1997 e il 1998 documentò allo stesso modo le stragi di civili hutu rimasti in patria e rifugiati in Congo da parte dell’esercito del nuovo presidente del Ruanda, Paul Kagame. Questa imparzialità le procurò parecchi nemici. Nel 2008 pubblicò una critica dei tribunali e delle prigioni ruandesi e il governo le vietò l’ingresso nel paese.

Alison Des Forges è morta anche lei in un incidente d’aereo. Il suo si è schiantato vicino a New York, diretto a Buffalo, mentre rientrava dalla consultazione della Royal Commonwealth Society, a Londra, sull’ingresso del Ruanda nel Commonwealth («Sì, ma tenete gli occhi ben aperti», aveva consigliato). Un mese dopo, un professore dell’università di Stanford, Keith Harmon Snow, la accusò - con Human Rights Watch e addirittura i volontari ruandesi assassinati per aver partecipato alla commissione del 1993 – di essere stata un agente dell’espansione neo-coloniale degli Stati Uniti nella regione dei Grandi Laghi. La tesi di Harmon Snow è quella dei comandanti e dei politici hutu tuttora rifugiati in Congo: il Fronte patriottico di Kagame era un esercito straniero al soldo degli Stati Uniti, di Israele e di varie potenze europee, il Tribunale internazionale è al soldo dell’imperialismo occidentale; i condannati hutu erano innocenti o come minimo avevano risparmiato alcuni tutsi. Nelle sue testimonianze Alison Des Forges avrebbe minimizzato questi gesti di bontà per consolidare il regime di Kagame. Harmon Snow e i coordinatori del genocidio hanno già dimenticato gli ordini dati da Radio Mille Collines su come andavano trattati, prima degli altri, le donne e i bambini.

NOTE

1. L’inchiesta francese ha concluso che l’aereo era stato abbattuto su ordine di Paul Kagame, non è chiaro se da miliziani tutsi o da mercenari alle cui “aziende” molto governi - non solo occidentali - subappaltano tuttora le proprie “operazioni” attorno ai Grandi Laghi.

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Fonti, risorse bibliografiche, siti su Alison Liebhafsky Des Forges

Des Forges, Alison, Leave None to Tell the Story, Human Rights Watch, New York, 1999

Il necrologio del New York Times,

Il ricordo di Monique Mujamariya

Referenze iconografiche: Alison des Forges. © 2005 Human Rights Watch.  Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023