Nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò, dama di corte della regina Elena, perla dei salotti aristocratici di Palermo, ammirata signora dei ricevimenti dei Florio, deve la notorietà alla sua tragica e scandalosa fine.

Ultima di quattro sorelle (che Matilde Serao descrisse pensando «che ciascuna di esse meritasse una corona sovrana»), appena fatto l’ingresso in società, sposò, all’età di diciotto anni, il conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia (1870-1929), con il quale ebbe due figlie e un buon rapporto coniugale per una decina d’anni. Poi patisce una lunga malattia; il marito intraprende una relazione con un’attrice della compagnia di Scarpetta, e si dedicherà alla politica diventando sindaco di Palermo dal giugno 1909 al giugno 1910.

Nell’agosto 1909, durante un ricevimento dei Florio a Villa Igiea, Giulia conosce il barone Vincenzo Paternò del Cugno, aitante tenente di cavalleria, di due anni più giovane di lei. È un amore tragico e travolgente. Dopo alcuni mesi, dopo quasi quotidiani incontri nei salotti cittadini, i due compiono una serie di viaggi durante i quali la passione ha libera e totale cittadinanza. Ma il Paternò non era soltanto un brillante ufficiale e bel cavallerizzo che faceva innamorare le donne, o un «farfallone attratto dalla vivida luce della lanterna dei Florio», come lo definì Tomasi di Lampedusa; era anche un violento, che viveva di debiti e di espedienti, dominato dalla passione per i cavalli e per il gioco. Nonostante la sua provenienza da nobile famiglia, le cui risorse finanziarie erano ormai insufficienti, a causa della improduttività delle miniere di zolfo che possedeva, egli era sempre alla ricerca di soldi. E più volte chiede somme dalla stessa Giulia, cosa che, nel processo che lo vide imputato di omicidio, gli valse l’accusa di sfruttatore. Inoltre, la sua gelosia procurava sempre più frequenti fratture nel rapporto con l’amante. Rapporto che si manifestava in forme sempre più evidenti e scandalose, tanto da far decidere i coniugi Trigona a separarsi legalmente.

L’epilogo di questa tormentata vicenda, che ormai correva di bocca in bocca dai salotti palermitani alla corte romana, si svolge nel marzo 1911, mentre Giulia e suo marito si trovavano al Quirinale, convocati dalla regina Elena per il loro servizio a corte e forse per tentare una riconciliazione. Il 2 marzo Giulia e Vincenzo Paternò si danno convegno nei pressi della stazione Termini, nella stanza n. 8 di un albergo non molto elegante, l’hotel Rebecchino. Doveva essere l’incontro dell’addio, perché la contessa, sfinita per le deliranti scene di gelosia dell’amante, voleva chiudere quella relazione e restituite le lettere, più di cento, che gli aveva spedito... Fecero l’amore sapendo che era l’ultima volta e, poi, la tragedia: lui con un coltello da caccia (che oggi è esposto al Museo criminale di Roma) la colpisce alle spalle e poi, trascinandola sul letto, le vibra due coltellate alla gola. Quindi con la pistola si spara alla testa.

La polizia trova nella stanza la contessa morta, distesa sul letto e lui per terra, rantolante. Sulla scena, sparse le lettere di Giulia, tra le quali alcune che provavano anche i rapporti estremamente confidenziali della regina con la sventurata dama di corte e, come affermò una certa pubblicistica, qualche altra che rivelava addirittura certi rapporti internazionali segreti di casa Savoia. Sono illazioni non provate, anche perché l’epistolario, prima di giungere ai magistrati, viene passato al vaglio del presidente del Consiglio Giovanni Giolitti e poi del re Vittorio Emanuele III.

Il barone del Cugno sopravviverà nonostante la grave ferita alla tempia sinistra e, rinviato a giudizio, il 27 giugno 1912 sarà condannato all’ergastolo dalla corte d’assise di Roma. Lascerà il carcere nel 1942, a 62 anni, graziato dal re dietro richiesta di Mussolini. Ritornato a Palermo nella sua casa di Via Sammartino, sposa la sua collaboratrice domestica, e muore nel 1949.

Il caso Paternò-Trigona, all’epoca dei fatti, suscitò un clamore eccezionale.

Nacquero a Roma ballate popolari, se ne impossessarono i cantastorie in Sicilia, i giornali di tutta Europa diedero un grande rilievo all’assassinio della bella contessa palermitana. Intorno alla vicenda si agitarono, anche se in maniera molto circospetta, grossi nomi dell’Italia degli anni Dieci. Non era soltanto una storia di amore e morte. I fatti che scuotono veramente l’opinione pubblica sono quelli nei quali si rispecchia, nel bene o nel male, la coscienza dei tempi. Il caso Paternò-Trigona era anche una metafora del clima di quell’Italia, con i suoi protagonisti viscontianamente simboli di ceti al tramonto e di classi in ascesa, privilegi che nascono e privilegi che muoiono.

Sullo sfondo di questo triangolo “lei, lui, l’altro” delle commedie alla Niccodemi allora in voga, c’è dunque una fetta di storia italiana e siciliana che dà alla tragica vicenda della contessa Trigona un valore di metafora, al di là della scarna storia d’amore. Storia d’amore che, tuttavia, fece rinascere in Italia, dopo l’assassinio, la questione del divorzio, con dibattiti sulla stampa e nei circoli politici analoghi nella sostanza a quelli avvenuti sessant’anni più tardi.

Di questa storia non si è mai persa la memoria e più volte è stata rievocata, in particolare nel libro di Antonio Velani Le pietre dello scandalo (Mondadori); in uno sceneggiato televisivo della Rai del 1978, Il delitto Paternò, con Delia Boccardo e Lino Capolicchio; e in un romanzo fanta-politico del 2001 della giallista Adriana Brown, Un ventaglio Blu Savoia, edizioni Filema, Napoli.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023