Leda Rafanelli nasce a Pistoia il 4 luglio 1880. Di umilissima famiglia è presto costretta a cercarsi un lavoro, ma a un banale destino di serva o sartina, preferisce il mestiere di tipografa: «Il lavoro cominciava alle sette d’estate e alle otto d’inverno. Ricordo, in certe mattinate di vento e di gelo, nel naturale sgomento di dovermi alzare dal povero giaciglio, che egoisticamente mi rallegravo quando sentivo, insieme al battere degli zoccoli sul selciato, le misere operaie della filanda, ragazze di una “classe inferiore” per le lavoratrici della tipografia, che si recavano al lavoro un’ora prima di noi e, per riscaldarsi con le loro stesse parole, cantavano» scriverà della sua adolescenza nel 1968, ormai quasi novantenne, sul giornale anarchico «Umanità Nova». Anarchica lo era diventata intorno ai vent’anni, dopo qualche simpatia socialista. L’Italia si era a lungo impantanata nella guerra d’Abissinia perdendo nella battaglia di Adua migliaia di uomini; a Milano nel maggio 1898 il generale Bava Beccaris aveva represso a cannonate le manifestazioni popolari che chiedevano pane e due anni dopo, per vendicare i quasi cento morti, era arrivato dall’America un anarchico di Prato, Gaetano Bresci, a uccidere a colpi di pistola a Monza re Umberto I.

«Leda Rafanelli riscuote in pubblico fama di persona piuttosto libera nella condotta morale, anche per i suoi principi di libero amore. Ha intelligenza molto svegliata e cultura superiore alla media acquistata con la lettura assidua e con l’assimilazione di libri, opuscoli, riviste sociologiche. Ha frequentato appena le scuole elementari» scrive la prefettura di Firenze il 4 agosto 1908. Viene descritta come una donna esile, di media statura, con i capelli neri folti e ondulati, «di andatura svelta e espressione fisionomica simpatica». Lei è orgogliosa di avere sangue arabo nelle vene «per via di un mio nonno materno che era figlio naturale di uno zingaro tunisino»[1]. Anarchica e mussulmana, sufista, fermamente convinta che le due cose non siano affatto in contraddizione: «I miei compagni sono atei, e padroni di esserlo. Io sono credente. A me non interessa affatto che gli altri siano religiosi, amo esserlo io»[2] rivendicava in proposito.

È il 1902 quando si sposa con Luigi Polli, un libraio di Galluzzo, Firenze, conosciuto durante un breve soggiorno ad Alessandria d’Egitto. Per la polizia si tratta di un poco di buono: «Nell’opinione pubblica non riscuote buona fama perché facile a contrarre debiti e a non soddisfarli». Si trasferiscono a Milano dando vita a una casa editrice che diventa in fretta un punto di riferimento per libri e opuscoli anticlericali, antimilitaristi e femministi. Testi come Le memorie di un prete, Dopo lo sciopero, Donne oneste, che Leda scrive e Luigi smercia a un centesimo l’uno. Seppure resteranno legati per tutta la vita da profonda amicizia – lui morirà per un attacco di cuore tra le sue braccia una sera di giugno del 1922 – la loro storia d’amore è destinata presto a finire. Leda si innamora di un altro toscano, Giuseppe Monanni, di Arezzo, conosciuto anni prima a Firenze tra le suggestioni individualiste della rivista «Vir» e ritrovato a Milano, negli anni incendiari dove ogni rivolta appare possibile: «Agitarsi ed agitare in tutti i modi e in tutti i luoghi, nelle strade come nel comizio, nell’osteria come nell’officina, in caserma come nelle camere del lavoro, ovunque vi siano degli esseri che hanno un cervello per pensare» si legge su «La Protesta umana» e «Il Grido della Folla», giornali per i quali collaborano. Anche Monanni è un tipografo e in quella Milano che brucia avviano insieme una nuova casa editrice, la Libreria Editrice Sociale, che è vera avanguardia: non soltanto i libri di Bakunin, Proudhon, Pietro Gori, Kropotkin; ma anche le opere di Stirner e di Nietzsche capaci di portare parole nuove coniugando uguaglianza e libertà, rivoluzione collettiva e rivoluzione individuale.

Sono gli anni in cui Leda Rafanelli conosce e frequenta Mussolini. Lui è un giovane e agguerrito socialista con simpatie anarchiche. Dirige «L’Avanti!» e non nasconde le sue ambizioni: «Mi servono sensazioni nuove che nemmeno l’amore sa darmi. Ho bisogno di gloria, di ricchezza, di novità, di tumulto» le confidava durante quei loro incontri a casa di lei, in viale Monza. Un appartamento non tradizionale, con i divani bassi, il braciere con l’incenso, le iscrizioni coraniche alle pareti, i tappeti e le stuoie. Una frequentazione durata neanche due anni che si interrompe alla vigilia della Grande Guerra, quando Mussolini rompe gli indugi diventando interventista con conseguente espulsione dal partito socialista e Leda, assieme a Nella Giacomelli, altra protagonista dell’anarchismo milanese di quella stagione, prosegue incessante la sua battaglia contro ogni guerra, convinte entrambe che soltanto le donne possono fermarla: «Donne d’Italia! Unitevi tutte al grido di abbasso le armi! Madri, spose e sorelle! Se l’amore che dite di sentire per i vostri figli, per i vostri mariti e per i vostri fratelli non è una menzogna, se l’esistenza dei vostri cari vi è veramente sacra, unitevi tutte nel fatidico grido di Abbasso le armi! Per l’umanità, per la civiltà, per l’avvenire, sia unica la vostra volontà e sia forte il vostro grido affinché risuonando in ogni contrada strappi al dolore muto ed alla passiva rassegnazione tutte le femminili energie e le sollevi all’azione contro le barbarie devastatrice. Su la tempesta di fuoco e di sangue che imperversa senza tregua da oltre venti mesi, sopra gli urli dell’odio e della morte che travolgono tante genti, sopra il rombo micidiale e orrendo delle artiglierie che mietono tanti giovani e preziose esistenze, risuoni alto e vibrante il vostro grido generoso: giù le armi! Viva la fratellanza umana!» scrivevano sui manifesti e volantini.

Non è dato sapere se tra Leda Rafanelli e Benito Mussolini ci sia stata una storia d’amore. Lei, almeno pubblicamente, ha sempre parlato soltanto di un bacio rubatole un pomeriggio sul pianerottolo, altre fonti invece la inseriscono nel lungo elenco delle amanti del duce. Certo è che le lettere che le inviava Mussolini sono piene di passione e qualcuna pare inequivocabile: «Da tre giorni non mi scrivi. Perché? Lo indovino. Ti credevo più forte, più umana. Finito dunque? Già finito questo nostro amore che sembrava meraviglioso? Tu non puoi credere quanto questo silenzio mi faccia soffrire. Scrivimi, magari per maledirmi, ma scrivimi, te ne scongiuro». Le lettere non furono mai trovate durante le numerose perquisizioni che la polizia fascista effettuò a casa di Leda e nei locali della casa editrice. Erano state portate al sicuro in Romagna, conservate dal pittore Luigi Melandri. Finita la guerra diventarono un libro intitolato Una donna e Mussolini, pubblicato dalla Rizzoli alla cui poltrona di direttore editoriale il nuovo corso della storia aveva portato Giuseppe Monanni, dal quale la Rafanelli si era separata da tempo condividendo il dolore per un figlio nato nel 1910 e prematuramente scomparso per malattia poco più che trentenne. Il libro ebbe un discreto successo portandole un po’ di notorietà con una serie di articoli sui rotocalchi dell’epoca e persino un servizio fotografico realizzato da Federico Patellani, uno dei fotoreporter più famosi del momento.

Una donna e Mussolini, ristampato ancora nel 1975, è soltanto la punta dell’iceberg di una ricchissima produzione letteraria cominciata con Seme nuovo nel 1908 e proseguita poi con Bozzetti sociali (1910); L’eroe della folla (1920); Incantamento (1921); Donne e femmine (1922); Come una meteora (1926); L’Oasi (1929). Numerosi gli scritti rimasti tuttora inediti e conservati in gran parte presso l’Archivio Berneri-Chessa di Reggio Emilia. Il materiale è stato riordinato alla fine degli anni Novanta dalla nipote Vega Monanni, la primogenita dei quattro figli messi al mondo da suo figlio: «Mentre facevo questo lavoro, stavo a rileggere brani di romanzi, opuscoli, manoscritti inediti di ogni genere, commedie e soprattutto prose ritmiche, poesie, fiabe. Le fiabe, ecco, sono quelle che maggiormente mi hanno commosso per la loro freschezza, anche a distanza di quasi un secolo» ha raccontato in una lettera pubblicata da «Rivista Anarchica» nel maggio del 2001.

Nessun libro è però mai stato in grado di fare uscire Leda Rafanelli dalle ristrettezze economiche che l’hanno sempre accompagnata: «Ti sono grata e ti ringrazio per l’offerta d’aiuto, ma vedi, Nella, comprendi bene che nelle situazioni come la mia nemmeno un milionario potrebbe sistemarla. Non perché abbia bisogno di molto, lo sai, io non ho bisogno di niente, ci sono abituata, a casa mia anche da bambina è spesso mancato il cibo» scriveva alla sua amica Nella Giacomelli, che assai più benestante di lei si offriva spesso di aiutarla. Ad un certo punto, dopo la separazione con Giuseppe Monanni che nel 1934 l’aveva lasciata per una donna più giovane, per sbarcare il lunario si era messa a fare la chiromante: «È un dono che sento di possedere fin da bambina, la mano è una pagina dove uno scrittore ignoto ha segnato le vicende segrete dell’individuo che porge il palmo, ma la chiromanzia non è una scienza e dubito assai di tutti i maestri delle scienze occulte; io non ho gocce da mescolare col caffè, polverine di capelli da fare ingoiare col cibo o spilli da infilare negli occhi di una fotografia, solo l’istinto e un senso segreto e inspiegabile mi guidano» scriveva con lo pseudonimo di Dhjali sul finire degli anni Trenta introducendo il libro che, curato da Milva Maria Cappellini per la Nerosubianco, vedrà la luce soltanto nel 2010 con il titolo Memorie di una chiromante.

Leda Rafanelli era vegetariana, amava moltissimo i gatti, si definiva «irregolare persino nei ricordi» e non sopportava viaggiare: «Non esce mai di casa, mantiene regolare condotta morale e politica» riportano durante il fascismo i cenni di polizia fino a convincere la Prefettura di Milano a radiarla nel ’34 dal registro dei sovversivi. Riteneva di avere pochi amici: «Sono quattro, il numero perfetto. Quattro come le stagioni, come i poli del vento, come le facce della piramide. Potranno diventare cinque, come le dita della mano, cinque come i sensi. Ma non di più...» scriveva a uno di loro, Carlo Molaschi[3]. Individualista e solitaria, ricordata come una esponente di spicco dei futuristi di sinistra e soprannominata la zingara anarchica, è morta a Genova il 13 settembre 1971, due mesi dopo aver compiuto 91 anni: «Leda Rafanelli, partendo per sempre, saluta tutti i compagni. Viva l’anarchia» ha voluto scritto quel giorno sulla rivista «L’Internazionale».

NOTE

1. Leda Rafanelli, Memorie di una chiromante, a cura di Milva Maria Cappellini, Nerosubianco, Cuneo, 2010.

2. Leda Rafanelli, Una donna e Mussolini, Rizzoli, Milano, 1946.

3. Mattia Granata, Lettere d’amore e di amicizia: la corrispondenza di Leda Rafanelli, Carlo Molaschi, Maria Rossi, BFS, Pisa, 2002.

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Fonti, risorse bibliografiche, siti su Leda Rafanelli

Referenze iconografiche: Leda Rafanelli, immagine in pubblico dominio.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023