La luna, percorrendo il proprio sentiero notturno, lentamente si avvicinò e gettò luce lungo il letto, sui suoi piedi. La fissò senza distogliere lo sguardo, mentre avanzava centimetro per centimetro, piano. Gli sembrava portasse con sé un grande silenzio. Aveva avuto così caldo e si era stancato tanto laggiù, sempre in ferriera! Gli anni erano stati così feroci e crudeli! Ecco che ora si andavano avvicinando la quiete, la frescura, il sonno. Le membra tese si rilassarono, distendendosi in un calmo languore. Dal cuore, il sangue scorreva più debole e lento. Adesso non pensava con rabbia selvaggia a ciò che sarebbe potuto essere e che non era stato; era consapevole solo della profonda immobilità che si insinuava in lui. All’inizio vide un mare di volti: (…) poi fluttuarono tutti insieme, come una foschia, e svanirono, lasciando solo la chiara luce perlata della luna. 1

Il punto apicale della sua carriera di scrittrice, nonché uno dei momenti più alti della letteratura nord-americana del XIX secolo – e non solo – ha luogo quando Rebecca raggiunge i trent’anni. Forse è allora che, per un attimo almeno, tutto diventa chiaro nella sua mente, nella sua scrittura. Diventa chiaro il sociale, il mondo industriale incalzante, i lavoratori ridotti in schiavitù, lo sfruttamento, i macchinari infernali, la miseria ma anche la ricchezza sottostante, fatta di arte e bellezza, che pure anima quelle vite storpie e malate. Alla soglia dei trent’anni, Rebecca vede tutto ciò. Lo vede chiaramente come di notte la luce della consapevolezza. Dopo questa agnizione del mondo e dell’anima, quella luce si affievolirà, perché Rebecca non sarà più in grado di ripetere l’intensità narrativa e la drammaticità poetica della visione di Vita nelle ferriere.

Non è un caso che il risultato più nobile di questa scrittrice, pur così prolifica, abbia come oggetto una narrazione notturna. Una sola, lunga notte illuminata dalla visione dell’autrice, in cui sono racchiuse atrocità e passioni inaudite fino a quel momento nella storia della letteratura. Una notte di conoscenza delle insidie dell’anima, delle sue brutture, dei meccanismi perversi che gli esseri umani innescano e della rabbia che fomentano, ma anche della loro – della nostra – capacità di bellezza, traboccante di dis-armonie, passioni e generosità.

Prima di cinque figli, Rebecca nasce il 24 giugno 1831, in Pennsylvania, a Washington, una cittadina a circa trenta miglia da Wheeling, Virginia, dove trascorre gli anni della sua formazione. Più che una cittadina, si trattava di un gruppo di case sparse lungo due strade fiancheggiate da pioppi, tra il fiume Ohio e le colline silenziose. Le notizie che pure arrivavano dal mondo esterno vi giungevano portate da uomini in sella a cavalli al galoppo

The village in Virginia which was our home consisted of two sleepy streets lined with Lombardy poplars, creeping between a slow-moving river and silent, brooding hills. Important news from the world outside was brought to us when necessary by a man on a galloping horse.

Il villaggio della Virginia che fu la nostra casa era costituito da due strade assonnate, fiancheggiate da pioppi della Lombardia e insinuantesi tra un fiume che scorreva lentamente e colline pensierose, silenti. Le notizie importanti provenienti dal mondo esterno ci venivano portate, all’occorrenza, da un uomo in sella a un cavallo al galoppo.

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In realtà, oggi Wheeling si trova in West Virginia, poiché, con la guerra civile del 1861 e la cosiddetta Wheeling Convention, cinquanta contee sanciscono di fatto la secessione dalla Virginia, rivendicando l’indipendenza come Stato. Fino ai quattordici anni, quando entra nel Washington Female Seminary in Pennsylvania, Rebecca viene istruita dalla madre, poi privatamente. Finiti i tre anni di scuola, nel 1848 si diploma con il massimo dei voti e torna a casa, ad aiutare la madre nelle faccende domestiche. Ben poco si sa degli anni che corrono tra il diploma e la pubblicazione di Vita nelle ferriere. Sono gli anni però di Nathaniel Hawthorne (The Scarlet Letter, 1850), di Herman Melville (Moby Dick, 1851), Harriet Beecher Stowe (Uncle Tom’s Cabin, 1852), di Henry David Thoureau (Walden, 1854) e di Walt Withman (Leaves of Grass, 1855) e in qualche modo la scrittrice in formazione assorbe l’intensità della loro scrittura rielaborandola in uno stile suo proprio. Questi sono anche gli anni in cui in America comincia la fine della schiavitù e la rivendicazione dell’uguaglianza, non solo di razza ma anche di genere. Ciò che stupisce è come una donna, immersa in una realtà di provincia, testimone solo vicaria degli sconvolgimenti in atto dovuti alla guerra civile, sia stata in grado di percepire i profondi dilemmi della disuguaglianza di classe e della fatica della vita nelle fabbriche, a cui fino ad allora nessuno aveva dato voce se non nel Continente: si pensi all’Oliver Twist di Charles Dickens, del 1838, a Sybil, or The Two Nations di Benjamin Disraeli, del 1845, oppure a Mary Barton di Elizabeth Gaskell, del 1848. Il quarto stato stava appena prendendo coscienza di sé, ma con Vita Rebecca ne ritaglia uno squarcio e lo dipinge ante-litteram con risvolti inquietanti. Il 26 gennaio del 1861, in cerca di un editore disposto a pubblicare il suo lavoro, manda una lettera a James T. Fields, allora direttore dell’«Atlantic Monthly», a cui aveva inviato il manoscritto di Vita nelle ferriere, spiegandogli di essere alle prime armi, spinta alla scrittura o per necessità o per capriccio:

I have written but little, hitherto, and then anonymously; principally, reviews of new books. A few verses and stories, impelled by the necessity or whim of the moment.

Ho scritto ben poco, sinora, e comunque anonimamente; più che altro, recensioni di nuovi libri. Un po’ di versi e di racconti, spinta dalla necessità o dal capriccio del momento.

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Purtroppo non vi è traccia di questi primi lavori, che avrebbero potuto dare indicazioni fondamentali per comprendere il percorso di formazione letteraria dell’autrice. Ad ogni modo, Fields accetta di pubblicare anonimamente il manoscritto, che si rivela subito un successo, al punto da indurlo a compensare la Davis con un assegno da cinquanta dollari – al tempo somma consistente – più cento dollari come anticipo per un secondo lavoro da pubblicare a puntate. Questo, A Story of Today, sarà poi riproposto come romanzo dal titolo Margret Howth, nel 1862.

Dal momento della pubblicazione del capolavoro, la vita di Rebecca cambia radicalmente. È una scrittrice di successo, adesso, e questo le apre numerose porte. Prima tra tutte – almeno per le conseguenze che avrà sulla sua vita privata – il matrimonio. Rebecca incontra il futuro marito, Lemuel Clarke Davis, sulla scia del successo di Vita. La contatta lui, inizia una corrispondenza tra i due, si incontrano, due anni dopo si sposano. Da questo momento in poi, Rebecca sarà, sì, una prolifica scrittrice sempre più nota e apprezzata nei circoli letterari, ma sarà anche, a tutti gli effetti, moglie e madre di tre figli. Il primogenito, Richard, è il noto scrittore, corrispondente di guerra e giornalista che, tra l’altro, documenterà la guerra ispano-americana, la seconda guerra boera e la prima guerra mondiale.

Fino agli ultimi anni della sua lunga vita, Rebecca pubblica in continuazione: collabora regolarmente con l’«Atlantic Monthly», il «Galaxy», il «New York Tribune», il «New York Independent» – per citarne solo alcuni – scrive romanzi, tra cui: Waiting for the Verdict, 1868; A Law unto Herself, 1878; Silhouettes of American Life, 1892; Frances Waldeaux, 1897; racconti (tra gli altri: John Lamar, 1862; Ellen, 1865; In the Market, 1868; A Pearl of Great Price, 1868; Put out of the Way, 1870; A Day with Doctor Sarah, 1878); oltre a innumerevoli articoli, editoriali, saggi. Se Vita ha rappresentato il momento artisticamente più intenso della sua carriera, è innegabile che, presa nel complesso, la produzione narrativa e giornalistica di Rebecca Harding Davis resta una significativa testimonianza del tempo, il giusto lascito della sua poetica:

It always has seemed to me that each human being, before going out into the silence, should leave behind him, not the story of his own life, but of the time in which he lived - as he saw it - its creed, its purpose, its queer habits, and the work which it did or left undone in the world.

Mi è sempre sembrato che ogni essere umano, prima di scomparire nel silenzio, dovrebbe lasciare dietro di sé non la storia della propria vita, ma del tempo in cui ha vissuto – nel modo in cui lo ha percepito – delle credenze, degli obiettivi, delle strane abitudini e del lavoro che quel tempo ha compiuto, o lasciato incompiuto, nel mondo.

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Note


1 Rebecca Harding Davis, Vita nelle ferriere. La donna di korl (1861), introduzione, traduzione e cura di Paola Gaudio, Aracne editrice, Roma 2006
2 Rebecca Harding Davis, Bits of Gossip (1904), p.1; http://docsouth.unc.edu/fpn/davisr/davis.html
3 Cit. in William F. Grayburn, The Major Fiction of Rebecca Harding Davis (PhD dissertation, University of Pennsylvania State University) pp. 75-76, Pennsylvania 1965
4 Rebecca Harding Davis, Bits of Gossip, cit. p. 3.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Rebecca Harding Davis

Judith Fetterley (a cura di), Provisions. A Reader from 19th-Century American Women, Indiana University Press, Bloomington 1985

William F. Grayburn, The Major Fiction of Rebecca Harding Davis  (PhD dissertation, University of Pennsylvania State University) pp. 75-76, Pennsylvania 1965

Rebecca Harding Davis, Bits of Gossip (1904)

Rebecca Harding Davis, Vita nelle ferriere. La donna di korl (1861), introduzione, traduzione e cura di Paola Gaudio, Aracne editrice, Roma 2006

Tillie Olsen, A biographical Interpretation in Id., Life in the Iron-Mills and Other Stories, Old Westbury, NY, Feminist Press, 1985, pp. 69-174

Jean Pfaelzer (a cura di), A Rebecca Harding Davis Reader, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh & London 1995

Cecilia Tichi (a cura di), Rebecca Harding Davis. Life in the Iron Mills, Bedford Edition, Boston 1998

Referenze iconografiche: Rebecca Harding Davis, 1865 circa. Immagine in pubblico dominio.

Voce pubblicata nel: 2014

Ultimo aggiornamento: 2023