Rina Pincherle nacque a Milano il 6 dicembre 1895 in una famiglia di religione ebraica. La madre, Emilia Stukowitz (Padova 1873 – Nervi 1963), era figlia dell’udinese Marco e della padovana Anna Bassani. Il padre, Arturo, nato a Udine nel 1861, nel 1897 divenne titolare, con Felice Hirschler, di una importante società per il commercio di articoli per pelliccerie, la “Felice Hirschler”, fallita nel 1922 forse a causa di una partita di merce, già pagata, sequestrata dai rivoluzionari sovietici. I Pincherle ebbero un altro figlio, Alberto (Milano 1894 – Roma 1979), docente universitario e direttore della sezione di Storia delle religioni e folklore dell’Enciclopedia Italiana. Sebbene avesse abbracciato da tempo il cattolicesimo, conversione incoraggiata da Ernesto Buonaiuti (presbitero, storico e antifascista), nel 1938, con l’entrata in vigore delle leggi razziali, fu costretto a emigrare con la famiglia a Lima (Perù) dove si dedicò all’insegnamento. Rientrò in Italia nel 1946.
Emilia Stukowitz sposò in seconde nozze Renato Angelici (1874- 1936), romano, di fede cattolica, il quale, entrato nel 1899 nel Banco di Roma, ne divenne segretario generale nel 1913, e poi direttore centrale nel 1916. Si dimise nel novembre 1919 per assumere la carica di condirettore centrale della Banca Commerciale di Milano (COMIT). Fu membro di diversi consigli di amministrazione tra i quali quello della Rinascente e della Cines-Pittaluga, che fu il più grande gruppo cinematografico in Italia di cui la COMIT era la maggiore azionista.
Rina frequentò “la Manzoni”, ovvero la Civica Scuola superiore femminile “Alessandro Manzoni” (ora Scuola Civica di lingua Manzoni), un istituto all’avanguardia, sorto con l’obiettivo di preparare le donne a contribuire al progresso comune in una libera società moderna. Lì Rina poté imparare, tra le altre materie, il francese e il tedesco. Seguì, nei primi anni del ‘900, al pari di molte ragazze del suo censo, anche le lezioni del pittore Giuseppe Mascarini che la ritrasse nel 1909. Con il maestro Rina tessé una lunga amicizia.
La giovane sposò, il 5 dicembre 1915, Rodolfo Simonetta (Grugliasco 25.6.1884-Aix-les-Bains, Francia, 28.6.1939). La coppia volle condividere la felicità di quel giorno con i soldati impegnati al fronte offrendo loro mille pacchi dono. Nei primi anni Dieci, Rodolfo Simonetta operava nel settore aeronautico, in seguito divenne rappresentante della sede di Parigi della Goodrich Rubber Company, una ditta americana di pneumatici e, dal 1918, fu direttore della succursale italiana con sede a Torino. Uomo d’affari in commerci non totalmente limpidi, nel 1928 acquisì la licenza per la fabbricazione e la vendita di un fucile mitragliatore. Nel 1938, in cambio della concessione dei diritti di produzione di un tipo di pistola alla Société Industrielle des Métaux di Nyon e grazie ad altre attività sempre legate alle armi, chiese il permesso di soggiorno in Svizzera.
I coniugi Simonetta Pincherle ebbero tre figli: Elena, Jolanda e Umberto (1926- 1998). Umberto fu drammaturgo, umorista, scrittore, giornalista, paroliere, autore, con Guglielmo Zucconi, di diversi varietà musicali radiofonici interpretati, tra gli altri, da due grandi amiche di Rina: Esperia Sperani e Gina Sammarco. Alcuni dei suoi successi librari furono Lo sbarbato, Tirar mattina, I viaggiatori della sera. Come drammaturgo si ricorda Mi voleva Strehler. Mentre nella veste di paroliere raggiunse la notorietà con i brani Il Riccardo, La ballata del Cerutti e Una fetta di limone cantati da Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci.
In alcune interviste Umberto raccontò di aver trascorso la prima infanzia a Milano e successivamente di essersi trasferito con la famiglia a Ginevra e, nel 1938, di essere tornato a Milano con la madre e poi a Roma dove frequentò il liceo.
Secondo la sopracitata richiesta di soggiorno in Svizzera, nel 1938, i Simonetta avevano già avviato la pratica di separazione. Rina, a distanza di tempo, non rinnegò la decisione presa, anzi sostenne l’importanza dell’istituto del divorzio in occasione del Referendum abrogativo dichiarando apertamente sul “Corriere della sera”: «A me pare che la gente dovrebbe essere lasciata libera di fare ciò che vuole […] Nessuno obbliga a divorziare […] Se uno è tanto cattolico […] lo sa da sé che il suo matrimonio […] è indissolubile». Nonostante ciò, rimasta vedova nel 1939, continuò a usare esclusivamente il cognome da sposata, molto raramente il suo, e solo dopo gli anni Cinquanta utilizzò i due accostati.
Ricostruire nel dettaglio l’attività di Rina Simonetta (come si firmò per molto tempo, come si è detto) è pressoché impossibile. L’Annuario della stampa italiana, nelle sue varie edizioni, è uno strumento utile, ma insufficiente per elencare con certezza le numerose partecipazioni a una miriade di testate a diffusione locale, nazionale e, secondo alcuni, perfino internazionale: contributi spesso occasionali, molte volte non firmati o firmati con pseudonimi a noi sconosciuti.
Esordì nel 1922 come autrice per bambini. Scrisse, per i tipi del foglio “Resto del Carlino”, Le storie di Elena, forse dedicato alla figlia, il primo di una lunga serie di libri per l’infanzia che inclusero riadattamenti di favole celebri. Coltivò questo genere pubblicando otto titoli. Secondo talune fonti, tra il 1922 e il 1923 (più probabile nel 1923), collaborò anche con lo stesso quotidiano bolognese. Di fatto, però, il suo nome non compare. A ciò affiancò interventi su altri seriali, sempre di quell’area geografica, come «Ragazzi d’Italia», fondato nel 1923 e diretto da Aldo Valori, redattore de «Il Resto del Carlino»; il «Giornale dei Balilla» e, negli anni 1941-1943, «La piccola italiana». Il suo stile venne apprezzato dalla fiorentina «La Nuova Scuola italiana», di Ernesto Codignola,- una rivista dedicata agli insegnanti per promuovere l’adesione allo spirito della nuova scuola gentiliana – che pubblicò, nella sezione “Didattica”, almeno uno dei suoi racconti. Nel contempo, Rina si dedicò alla stesura di novelle e romanzi a puntate per adulti, genere, in quegli anni, considerato un vero tesoretto per autori ed editori. Tra il 1914 e il 1924 scrisse per il «Corriere della Tessile», periodico illustrato di letteratura varia.
Dalla seconda metà degli anni Venti in poi il suo nome iniziò a comparire ovunque: su «Cordelia», il quindicinale per signorine della Cappelli di Bologna; «Quaderni di poesia, rivista letteraria», di Mario Gastaldi definito da Gabriele D’Annunzio «l’ostetrico del primo libro» per la sua peculiarità di proporre opere inedite di giovani autori; “Stelle”, dedicata al mito hollywoodiano contenente novelle e brevi romanzi; «Il romanzo mensile», quindicinale del «Corriere d’informazione»; «I romanzi del cigno», periodico di romanzi economici; «Cinevita», settimanale illustrato di vita e di cultura cinematografica, «Clan. Settimanale illustrato di varietà», sulla «Provincia di Como»; scrisse persino per «L’Italia marinara giornale della Lega navale italiana» diretto da Achille Starace. La sua presenza non si concretizzò, invece, su «Il dramma» che, nel 1926, aveva annunciato l’imminente uscita di una sua novella, forse intitolata Presentazioni, della quale non si ha notizia.
Rina Pincherle fu autrice di un solo romanzo, Cuori in libertà sulla spiaggia di Viareggio (Istituto Tipografico Editoriale, 1934), firmato con Al Borghesi.
La partecipazione a Note di moda e Consigli pratici di «Rakam», mensile di lavori femminili, si limitò all’aprile 1932. Fu, però, una collaborazione determinante per il suo successo, perché i suggerimenti alle donne rappresentarono un campo nel quale la giornalista si cimentò per numerosi anni.
Tuttavia l’ambito nel quale si distinse fu quello della moda. Dopo l’esordio su “Il Resto del Carlino”, nel 1924, a 29 anni, avviò un lungo sodalizio con il quotidiano milanese “La sera” che le assegnò lo spazio La moda: divenuta nel 1926 pubblicista e solo nel secondo dopoguerra giornalista, Rina Pincherle scrisse per questa testata almeno fino al 1935. Dal 1927 condusse una sezione analoga per “La cinematografia, rassegna settimanale illustrata”. Neanche l’elegante “Fantasie d’Italia”, diretta dall’influente Lydia De Liguoro, si lasciò sfuggire la sua firma.
Nel 1932, grazie a queste presenze sulla stampa, ottenute lavorando tenacemente, per lei iniziò a profilarsi un futuro professionale meglio delineato. Il figlio Umberto, infatti, rivelò come la madre cercò di dissuaderlo dall’intraprendere la professione giornalistica perché la riteneva estenuante e non adeguatamente retribuita. A maggior ragione considerando che fino al 1938 Rina risiedeva in Svizzera: la distanza tra i due paesi di certo non alleggeriva il suo impegno.
In quell’anno 1932, Delia Notari incaricò diverse penne illustri, come Margherita Sarfatti, Ada Negri e Grazia Deledda, di stilare articoli per «La cucina italiana», il giornale di gastronomia per le famiglie e per i buongustai che dirigeva in modo innovativo affiancata da un “Comitato di degustazione” di cui facevano parte personalità del mondo della cultura e dell’arte, primo tra tutti Filippo Tommaso Marinetti. Il 15 febbraio 1932 apparve dunque sulle colonne del mensile l’intervista di Simonetta a Marietta Sabatini, l’unica fatta alla fidata collaboratrice di Pellegrino Artusi, che raccontò per la prima volta l’attività del maestro. Secondo la breve presentazione che le edizioni Notari le dedicarono in Tavola della celebrità (1932), una raccolta di ricette scelte da personalità di rilievo come lei, Simonetta risultava essere una assidua collaboratrice del mensile.
In una lettera del 20 agosto 1955 indirizzata ad Aldo Borelli, direttore del «Corriere» dal 1929 al 1943, Rina rievoca l’esordio in via Solferino: «Sono entrata alla “Domenica [del corriere]” per la Moda con Lei; prima facevo soltanto qualche novella e qualche “realtà romanzesca” per [Fernando] d’Amora. E’ con Lei che ho iniziato la rubrica della Moda prima, poi quella del Galateo». Era il febbraio 1932. Ma solo nel 1934, in calce agli articoli, venne apposta la sua firma, o meglio gli pseudonimi con cui divenne nota: Monna Lisa e “L’amico di casa”. Il primo utilizzato come titolare dello spazio relativo alle tendenze del momento nell’ambito del costume che firmerà con il suo vero nome parecchi anni più tardi; l’altro come responsabile della sezione dedicata alle norme di galateo, settore del quale si occuperà per un lungo periodo, partecipando anche a trasmissioni TV. Gli interventi di questa seconda sezione vennero poi raccolti nei volumi Un po’ di galateo (Olivini, 1938) e Signora, dialoghi di galateo moderno (Baldini e Castoldi,1949). Su quell’onda, nel 1947, Monna Lisa/Simonetta diede alle stampe, per l’Editoriale Italiana, Ma cos’ha quella donna… (per essere affascinante?).
Ancora nel 1932, parallelamente alle collaborazioni cui si è accennato, assunse la direzione di «Fior di eleganza», un mensile ricco di rubriche di economia domestica e di vita mondana nonché di suggerimenti a tutto tondo. Condusse la testata fino alla sua chiusura alla fine del 1934.
Ma forse l’impegno maggiore Simonetta lo accettò divenendo redattore capo di “Eva” posizione che condivise con l’amica Rosa Menni Giolli che aveva progettato il settimanale, uscito nell’aprile del 1933, e che, su consiglio di Rina, l’aveva presentato a Ottavia Mellone Vitagliano che lo editò e diresse.
Simonetta, secondo gli accordi, si sarebbe occupata di moda e cucina (che probabilmente firmò come Corallina), ma seguì pure la rubrica sul teatro. Nel 1937, Simonetta lasciò la rivista, una pubblicazione molto seguita e per diversi aspetti all’avanguardia.
Neppure la redazione full-time di «Eva» la dissuase dall’abbandonare la presenza su altri seriali. Nel 1933, «Dea», che si occupava prevalentemente di abbigliamento, le assegnò la sezione Appunti scritti per Dea, che estendeva l’interesse verso ciò che succedeva all’estero, ai viaggi, all’arte, ecc. ecc. Lo stesso fece la “Famiglia fascista. Rassegna quindicinale illustrata” che, nel 1934, e solo per quell’anno, la incaricò di condurre il Salotto per signore sole. Ugualmente «Amica», tra il 1936 e il 1940, ricercò la sua consulenza sempre nell’ambito dello “stile” affidandole la rubrica La moda, condotta in precedenza da Bruno Piergiovanni, direttore dell’Accademia Italiana di Taglio dell’Unione Mutua Sarti di Milano. Tra il 1941 e il 1942 i suoi pezzi apparvero, con altrettanta assiduità, sul giornale aziendale «La famiglia Rinascente-Upim». Lo stesso, e fino al dopoguerra, avvenne su «La moda maschile», un bimestrale illustrato per i sarti da uomo, ma che si occupava anche di moda femminile.
Tutte queste collaborazioni la consacrarono tra le maggiori giornaliste italiane del settore, una notorietà che le procurò persino la nomina a membro della giuria che attribuì ad Antonio Russolo un premio per il miglior inno futurista. Il corpo dei giurati era composto da Marinetti, Folgore, Enrico Roma, Rodolfo De Angelis. Lei e la violinista Dina Pasini, furono le uniche donne presenti nel consesso.
Nel giugno 1946 Simonetta firmò con il «Corriere d’informazione» un contratto che prevedeva tre note mensili. Il foglio, molto attento all’esclusiva, le chiese – «perché ella ha meritatamente scritto dappertutto» – di utilizzare uno pseudonimo e non, come lei avrebbe preferito, il suo vero nome con il quale, invece, avrebbe continuato a siglare l’adesione ad altre testate.
Non conoscendo il nome fittizio scelto da Simonetta, neppure in questo caso è possibile ricostruire la sua presenza. A firma Simonetta, invece, vennero pubblicati quattro articoli: due di moda e due divertenti reportage, uno sulla sua avventura di giornalista-palombaro alla scoperta delle profondità del porto di Napoli, l’altro sull’inventore del balsamo “della tigre” che intervistò personalmente durante un viaggio a Hong-Kong. La partecipazione al «Corriere d’informazione» cessò, non senza polemiche, nel dicembre 1954. «La cosa che mi ha fatto più male in tutta questa faccenda – scrive a Borelli nella lettera a cui si è accennato in precedenza- è che mi si è affermato “nessuno mi vuole”. A questo – conclude amaramente- mi sono ribellata: nessuno dei “nuovi” mi vuole».
Nel 1954 Simonetta tornò alla direzione di un femminile, «Casa e cucina: Rivista pratica per la donna moderna» edito da Ariminum di Sergio Rimini (anche direttore responsabile), occupandosi talvolta della rubrica di moda. Tale esperienza terminò con la chiusura del mensile nel 1956.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta continuò a disseminare di tutto un po’ ovunque: dal settimanale napoletano «L’Avvenire del Mezzogiorno» al «Fenarete, letture d’Italia», bimestrale di attualità e cultura.
Nel marzo del 1963 si lanciò, non ottenendo il risultato sperato, nell’agone politico correndo per il Partito Repubblicano Italiano per un seggio alla Camera dei Deputati.
Scrisse spesso di viaggi: oltre a quello a Hong-Kong del 1938, riferì ai lettori de “Il Popolo del Friuli” del suo soggiorno, non semplice turismo, a Punta Arenas, in Argentina, e, nel 1961, raccontò di Trieste a quelli della “Famiglia Meneghina”.
Simonetta, oltre che giornalista fu anche autrice RAI e attiva conferenziera. Tenne numerosi incontri puntando sempre sui temi a lei cari: tendenze del momento e buone maniere, pensando alle donne non più come semplici comparse sulla scena pubblica e cercando di promuovere la loro condizione sociale. Tale impegno lo si riscontra in una lettera pubblicata dal “Corriere della sera” il 13 luglio 1963 esprimeva il suo apprezzamento nei confronti del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI)- una federazione italiana di associazioni di donne che, come lei, avevano una visione laica della società – e sottolineava l’importanza di far conoscere l’operato di questa “alleanza femminile”.<
Il repertorio bio-bibliografico Chi scrive la considera la prima «giornalista italiana a istituire sui quotidiani l’articolo di moda», attribuendole, inoltre, la qualifica di “redattrice viaggiante”. Nel 1954 la disegnatrice Brunetta, sua cara amica, la immortalò tra i protagonisti della cosiddetta Sala Bianca di Palazzo Pitti, la manifestazione di moda ideata da Giovanni Battista Giorgini che contribuì a diffondere lo stile italiano nel mondo.
A coronamento di una intensa e ricca carriera, che si esplicitò in articoli che, come detto, andarono oltre la descrizione in tono spigliato dell’abbigliamento del momento ricevette diversi riconoscimenti. L’Amministrazione della Regione autonoma Val d’Aosta il 3 gennaio 1953, le donò una spilla d’oro a forma di penna e, nel 1963, le venne conferita la medaglia d’oro per la sua quarantennale attività di giornalista. Ma soprattutto, il 2 giugno 1960, venne insignita dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (OMRI) e, il 27 dicembre 1973, quello di Ufficiale dell’OMRI.
Donna di grande spirito, come la definì il figlio Umberto, Simonetta morì a Ghirla, in provincia di Varese, il 14 agosto 1987.