Siamo sul finire degli anni ’40, in un liceo classico, lezione sulla poesia del Rinascimento. Stando a quanto detto dall’insegnante, solo una donna tra tanti poeti maschi; Vittoria Colonna, citata più per la sua alta spiritualità che per i suoi meriti artistici. Sennonché una studentessa si ritrova tra le mani una rivista letteraria e scova un altro nome femminile: Gaspara Stampa, poetessa veneziana, Padova 1523 - Venezia 1554. Lo scrive sul tema e si becca un’insufficienza. Colpevole di aver accennato a una figura scandalosa, “poco appropriata”, che a scuola, in quegli anni, era bene non nominare; una donna che nella Venezia del ‘500 osò scrivere d’amore senza imitare Petrarca e che mai si sposò. Eccolo qui il destino di Gaspara, per secoli intrappolata in un’aura ambigua, nutrita di congetture e tallonata da un dubbio ben poco “letterario”: fu o non fu una cortigiana? Impossibile rispondere con certezza. Ironia del destino, nell’apposito albo dove la Repubblica veneziana iscriveva le donne di piacere, mancano proprio gli anni in cui la sua persona e i suoi versi affascinavano la società del tempo.

Farsi largo tra tali congetture per trovare semplicemente la poetessa Stampa può risultare dunque assai complicato. Ma vale la pena provarci, con l’aiuto, guarda caso, di una donna: Maria Bellonci, scrittrice e studiosa di Rinascimento, che nel 1954 firmò l’introduzione alla ristampa delle Rime di Gaspara Stampa per Rizzoli. L’unica possibile “verità vera”, per dirla con Bellonci, sta nel lasciare da parte le ipotesi e calarsi “nel valore poetico dei versi di questa giovane donna”, la sola che fu capace di squarciare “il brusio dei molti petrarchisti italiani” stretti tra il Bembo e l’Aretino. Lei che usò l’amore come mezzo, come scintilla necessaria per sviluppare il suo talento poetico. Una donna speciale, che visse la sua breve vita dimostrando una funambolica capacità di stare in equilibrio in un mondo complicato ricco di stimoli e di possibilità che lei colse aggirando le rigide convenzioni dell’epoca; convenzioni che c’erano, pur se ben mimetizzate tra le tante libertà per cui Venezia era in quegli anni famosa.

Gaspara nasce a Padova nel 1523 da famiglia milanese, ramo decaduto di un casato patrizio. Il padre Bartolomeo commercia in gioielli. Attività che porta buoni guadagni. La madre Cecilia è di Venezia. Maggiore di poco la sorella Cassandra e di qualche anno più giovane il terzogenito Baldassare. Ai tre figli viene elargita un’educazione alta, propria dell’aristocrazia. Oltre che per Baldassare, anche per le due sorelle inizia presto lo studio del latino, del greco, della retorica, della grammatica, della musica e della letteratura. La prematura morte del padre – Gaspara ha solo sette anni – non pone fine all’alto livello di istruzione. Mamma Cecilia fa in modo che tutto continui, ma decide di tornare nella sua città natale. La famiglia si trasferisce quindi a Venezia in una casa nella parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio, oggi San Trovaso. Sarà qui che Gaspara vivrà fino alla morte. Come istruttore dei ragazzi, il toscano Fortunio Spira, poliglotta, intimo amico dell’Aretino e del poeta Bernardo Tasso. Grazie a lui i tre Stampa saranno presto in grado di scrivere in latino odi e componimenti. Il cantante e compositore di madrigali Perissone Cambio insegnerà alle due sorelle canto e liuto. Il giovane maestro di origine fiamminga faceva parte della Cappella musicale di San Marco e collaborava con i nomi più prestigiosi del tempo, su tutti Girolamo Parabosco, scrittore e organista a San Marco.

Bastano pochi anni e il salotto di casa Stampa diventa un centro di incontri letterari sempre più animato e famoso in città. Tra i suoi frequentatori più assidui, Francesco Sansovino, figlio del grande architetto fiorentino Jacopo e lo stesso Gerolamo Parabosco, che in una lettera a Gaspara scrive di lei:

«Chi vide mai tal bellezza in altra parte? Chi tanta grazia? E chi mai sì dolci maniere? E chi mai sì soavi e dolci parole ascoltò? Chi mai sentì più alti concetti? Che dirò io di quell’angelica voce che qualora percuote l’aria de’ suoi divini accenti, fa tale e sì dolce armonia...Potete adunque, bellissima signora Gasparina, esser sicura ch’ogni uomo che vi vede, v’abbia da rimaner perpetuo servitore» 1

La fama della giovane cresce, in una Venezia che bisogna immaginare – ce lo ricorda lo studioso Alvise Zorzi in La Repubblica del leone – come una specie di New York di oggi dai forti contrasti. 175.000 abitanti (oggi siamo ben sotto quota 60.000), grande ricchezza intellettuale. La città è capitale di uno Stato ancora vasto, anche se ormai assediato da nuovi equilibri nascenti. Eppure per tutto il Rinascimento sarà ancora splendida, potente e in forte ripresa economica. Il commercio, fortemente diminuito nei primi anni del secolo, crescerà per altri settanta anni, fino a raddoppiare attorno al 1560. È in questa società che Gaspara vive e si fa conoscere. A contatto stretto e quotidiano con intellettuali di ogni latitudine, che qui arrivano perché trovano stimoli, creatività e libertà più che altrove. Tra i ricchi, sete di magnificenza, voglia di divertirsi, di far feste e spettacoli. Le arti si sviluppano a dismisura, l’abilità degli artigiani è proverbiale: vetro, oreficeria, tessiture. E poi Tiziano, Tintoretto, Veronese. Le Accademie veneziane; le riunioni erudite; le commedie dell’esule Aretino recitate dalla Compagnia della calza dei Sempiterni con scene decorate dal Vasari, come costumisti Tiziano e Tintoretto. E poi il Carnevale con i suoi spettacoli, le sue mascherate licenziose ("Venezia, ricetto di libertà, porto tranquillo di quiete, meravigliosa armonia delle mondane cose", scrive un professore padovano nel 1555).

Nel 1544 Gaspara ha vent’anni: a Padova muore, appena diciannovenne, l’amato fratello Baldassare che lì studiava giurisprudenza e si dilettava in apprezzate prove poetiche. Il dolore è grande. Il 20 agosto di quell’anno, le arriva una lettera dal convento milanese di San Paolo Apostolo. È di Suor Paola Antonia – Virginia de’ Negri: la mette in guardia sui pericoli che una giovane può incontrare in società, soprattutto a Venezia. La invita a non farsi “delle sue grazie un idolo”: "[...] non credete agli adulatori, a quelli che vi amano secondo la carne; non vi ingannate, vi prego – scrive – e stroncate da voi quelle pratiche e conversazioni che vi alienano da Christo e mettonvi in pericolo..o possono dare nota di suspicione a quella bella onestà che in voi riluce" e chiude chiamando Gaspara “spirito formato in paradiso”. Definizione molto citata dai “difensori” della reputazione della poetessa, considerata prova della sua onorabilità e del suo non essere cortigiana.

Gaspara non segue però i consigli, che sembrano suggerire alla ragazza la via del convento. Continua invece a frequentare il bel mondo e nel salotto di Domenico Venier, mecenate di letterati e artisti, ne incontra parecchio. La sua bellezza, la sua cultura e la sua intelligenza passano sempre meno inosservate. Tanto che sono molte le opere a lei dedicate, perfino quelle più tecniche, come una lezione di Benedetto Varchi su un sonetto di Monsignor Della Casa. Lei ammalia tutti anche con la sua voce e con il suo canto. Perissone Cambio scrive che nessuno possedeva la musica più profondamente di lei. Non sarà quindi certo un caso se il timbro ritmico dei suoi versi risulterà “invaso da cadenze musicali2.

Siamo nel 1548. Gasparina, ormai cresciuta, è donna nubile e corteggiata. Ha 25 anni e la sua creatività poetica sta per esplodere. Prima di questa data si era già cimentata nella scrittura, ma erano soprattutto sonetti di cortese risposta ai suoi ammiratori, sempre in linea con la poesia alla moda, di Petrarca e di Bembo. L’introspezione necessaria per il grande salto, la vera spinta creativa, arriva dopo l’incontro con un giovane patrizio, il conte Collalto di Collaltino. Lui ha 26 anni, è di bell’aspetto, educato alle lettere e con possedimenti di famiglia nella marca trevigiana. Serve Venezia nella diplomazia e nella guerra. Lei se ne innamora. È il detonatore atteso, quello che la porterà a osare azzardi stilistici davvero innovativi. Se nel Preludio tematico del sonetto che apre il suo canzoniere, sembra muoversi in pieno rispetto delle convenzioni, poi – verso dopo verso – l’autonomia aumenterà sempre di più. Tanto che nell’ottavo sonetto dichiara una prima equivalenza assolutamente inedita per quegli anni, quella tra cuore e tecnica poetica: se l’Amore – si chiede – mi ha portato fin qui, perché non può "far la pena e la penna in me simile?". Tutte le innovazioni e gli “azzardi” stilistici verranno da lei stessa attribuiti alla presenza di Collaltino: solo lui muove in lei "lo stile, l’arte, l’ingegno, sensi, pensier, voglie, alma e core". Questo continuo ribadire che quel che di buono c’è nei suoi versi, appartiene a lui ("Voi mi guidate/L’ingegno e lo stil, signor, mi date") – per dirla con Bellocci – suona proprio come una necessità sociale. La supremazia di una donna sarebbe poco sopportata, perfino a Venezia.

A leggere il canzoniere come fosse un diario-epistolario d’amore 3, nei tre anni di rapporto con il conte, la poetessa attraversa tutte le fasi della passione, senza nessuna concessione alle astrazioni neoplatoniche in voga all’epoca. E forse lo scandalo vero si annida tutto qui. Nessun filtro. Nel canto si riversa lo struggimento davanti a uno sguardo, la paura di pensare a una vita senza l’amato, il dolore dell’assenza che arricchisce l’animo ("io benedico, Amor, tutti gli affanni"). Collaltino sembra poco sensibile a queste “rivelazioni in forma poetica” e più volte si allontana. Ed è proprio la solitudine che sembra consentire a Gaspara di sviluppare ancora di più la forza dei suoi versi; resi subito pubblici, e vengono immediatamente molto lodati nel circolo veneziano. La sua fama come poetessa si consolida. Si sceglie un nome arcadico, Anassilla, da Piave-Anasso il fiume che tocca i possedimenti del conte, il quale arriva addirittura a chiederle di scrivere dei versi su commissione, per un amico. Gaspara non accetta. Collaltino se ne va in Francia e lei decide di chiudere. L’addio è definitivo e – oltraggio ulteriore per i benpensanti – Anassilla annuncia subito, in versi, un altro amore. È Bartolomeo Zen (il nome lo svela con un acrostico). A lui rivolge gli ultimi 14 sonetti del canzoniere. Versi maturi, ribelli, densi di fiera autonomia, quella di chi è riuscita a realizzarsi appieno e con ardore. Un ardore 4 che acquista senso, proprio perché porta "volontariamente" alla "combustione della poesia":

Un foco eguale al primo foco io sento

e, se in sì poco spazio questo è tale,

che de l’altro non sia maggior, pavento.

Ma che poss’io, se m’è l’arder fatale,

se volontariamente andar consento

d’un foco in altro, e d’un in altro male?

(CCXXII)

Siamo nel 1552, la relazione con Zen è basata su un'amicizia profonda, su una intesa intellettuale che mai c’era stata con Collaltino. Un periodo felice. Amore e poesia: condizioni esistenziali ormai imprescindibili per Gaspara e affermate con forza in uno dei suoi versi più famosi: "viver ardendo e non sentire il male" (CCVIII), come una Fenice che rinasce dalle sue stesse ceneri – immagine che piacque a Gabriele D'Annunzio, tanto da inserirla ne Il fuoco, facendo dire a Stelio Effrena, il suo protagonista, che le Rime di Gaspara sono "un miscuglio di gelo e di ardore". Eppure tutto sta per finire. Siamo nel 1554, la primavera è da poco iniziata. Gaspara viene colpita da febbre altissima e da dolori addominali. Non avrà scampo. Morirà quindici giorni dopo, appena trentunenne, il 23 aprile. Le sue 311 Rime verranno pubblicate postume dalla sorella, appena qualche mese dopo.

Insieme ai tanti omaggi in poesia di amici e intellettuali, arrivano anche dei versi anonimi di disprezzo; si sospetta che l’autore sia l’Aretino, vecchio ma ancora acceso polemista. Cinquanta anni dopo, la prima biografia di Alessandro Zilioli, che insinuerà, ad uso e consumo dei posteri, il sospetto del suicidio col veleno, dipingendo una Gaspara inconsolabile, “mesta e lagrimosa”, a causa della fine dell’amore con Collaltino. Nel ‘700 un discendente del conte riediterà le Rime, in piena sintonia con questo ritratto. La strada era ormai aperta: zitella o meretrice? Santa o diavola? Debole o indomita? Meglio lasciar perdere e abbandonarsi al ritmo dei suoi versi.

Una inaudita e nova crudeltate,

un esser al fuggir pronto e leggiero,

un andar troppo di sue doti altero,

un tòrre ad altri la sua libertade,

un vedermi penar senza pietate,

un aver sempre a’ miei danni il pensiero,

un rider di mia morte quando pèro,

un aver voglie ognor fredde e gelate,

un eterno timor di lontananza,

un verno eterno senza primavera,

un non dar giamai cibo a la speranza,

m’han fatto divenir una Chimera,

uno abisso confuso, un mar, ch’ avanza

d’onde e tempesta una marina vera.

(CLXXIV)

Note


1 Lettera alla Virtuosissima Madonna Gaspara Stampa, nel primo libro delle Lettere amorose, Venezia, Giolito, 1545.
2 Cfr. Bellonci.
3 Cfr. Benedetto Croce, Luigi Russo.
4 Cfr. Bellonci.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Gaspara Stampa

Cesareo G.A, Gaspara Stampa, donna e poetessa, Biblioteca della Rassegna, società editrice Perella, Napoli, 1920.  

Croce Benedetto, Gaspara Stampa nella immaginazione. Gaspara Stampa nella realtà. Estetismo astratto a proposito di Gaspara Stampa, in Conversazioni Critiche, serie II, Laterza. Bari 1950.

Dolci Giulio, Gaspara Stampa in Letteratura italiana. I Minori, II, La Prora, Milano, 1961.

Russo Luigi, Gaspara Stampa e il Petrarchismo del '500, in Belfagor 13, 1958.

Salza Abdelkader, Madama Gaspara Stampa secondo nuove indagini, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1913.

Stampa Gaspara, Rime, prefazione di Maria Bellonci, Bur, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1954.

Zorzi Alvise, La Repubblica del Leone, storia di Venezia, Rusconi, Milano, 1979.

Referenze iconografiche: Ritratto di Gaspara Stampa. Collezione Achille Bertarelli, Castello Sforzesco, Milano. Incisione di Daniel Antonio Bertoli /Felicitas Sartori. Immagine in pubblico dominio.

Voce pubblicata nel: 2018

Ultimo aggiornamento: 2023