“Il ferro forgia le menti e forgia il cuore” (Tiziana Noce)

Olimpia Mibelli nasce a Portoferraio il 17 marzo 1923. Il padre, Dogali Mibelli, ha 36 anni, lavora come operaio e vive con la famiglia in via della Fonderia 46. La madre Giovanna e Dogali si sposeranno solo nel 1940.

Insieme a due testimoni, Natale Giannini, 39 anni, bracciante, ed Elbano Bertolini, 46 anni, marittimo, Dogali denuncia la nascita della figlia il 20 marzo 1923. Dai documenti presso l’archivio dell’anagrafe del Comune di Portoferraio si legge testualmente: “Il dichiarante [Degoli Mibelli ndr] è stato da me dispensato dal presentarmi la neonata stante il cattivo tempo. […] Letto il presente atto agli intervenuti, lo hanno meco sottoscritto i testimoni e non il dichiarante perché illetterato”. Olimpia nasce dunque in una famiglia di umili origini, analfabeta e in giornate di brutto tempo, e questo potrebbe far pensare ad un cattivo auspicio, ma in realtà, anche se la vita di Olimpia sarà quasi sempre dura e difficile, il suo carattere riuscirà ad avere la meglio sul destino.

Olimpia cresce  in un ambiente popolare, in un quartiere molto caratteristico, con le case alte e appiccicate l’una all’altra (come si possono vedere ancora nel centro storico di Portoferraio), con i fili per stendere la biancheria che corrono da una facciata all’altra, e le finestre dalle quali si intessono lunghe chiacchierate e si possono ascoltare canzoni struggenti. Olimpia inizia ben presto a lavorare come lavandaia, girando di casa in casa a ritirare la biancheria sporca e a riportarla  pulita; attinge l’acqua a una fontana perché le abitazioni modeste non avevano l’acqua.

Molte testimonianze concordano nel definirla originale: Olimpia di giorno lavora come lavandaia, ma di notte esce a passeggio o frequenta le feste paesane, agghindata, i tacchi alti, il passo deciso, la mossa studiata dell’anca. Cuce da sé gli abiti perché è anche sarta e si sovvengono di lei soprattutto le ampie gonne dai colori accesi e l’inseparabile borsetta. E’ anche sempre truccata, con un rossetto scarlatto ostentato con spavalderia. Per strada parla con la gente, a volte litiga, spettegola e in tanti ricordano la sua “dialettica” molto toscana.

Alcune fonti la definiscono una prostituta, ma Olimpia non lo è: è piuttosto una donna libera, che ama chi l’ama, che vuole divertirsi e prendere dalla vita quello che la vita le dà, le piace fare l’amore e lo fa con chi piace a lei e questo suo stile di vita è in fondo tollerato dal vicinato. Racconta G. Conti nel suo saggio che Olimpia aveva un modo tutto suo di ridere, con l’occhio destro che prendeva una piega strana, la bocca spalancata, la voce roca e profonda le riusciva sarcastica e spontanea nello stesso tempo. E’ una donna che vuole godere della vita, pur fra tanto lavoro e ristrettezze.

Olimpia si sposa molto giovane, il 22 aprile 1938, a soli 15 anni, con Angiolo Ferrini, già milite della Repubblica Sociale di stanza a Livorno, più per necessità che per ideali, ma rimane presto vedova. Non si hanno notizie certe circa una figlia.

Anche il contesto storico-sociale in cui Olimpia cresce non è dei più facili: la dittatura fascista segna la società elbana e soprattutto le classi meno abbienti pagano l’alto prezzo delle ristrettezze economiche e della repressione dell’antifascismo, molto diffuso nei ceti più poveri. Gli anni del regime coincidono inoltre con il più intenso periodo di estrazione del ferro, sia per le necessità imposte dalla crisi economica del 1929 e dall’autarchia, sia per il riarmo, in vista della guerra d’Etiopia prima e della seconda guerra mondiale poi.

Nonostante Mussolini abbia definito l’Elba “la sentinella avanzata dell’impero”, gli operai elbani, e in particolare i minatori che vivono con orgoglio la loro condizione, sono in maggioranza di sinistra e durante il Ventennio sono antifascisti la cui militanza è tramandata di padre in figlio e ha permesso loro di crearsi un’identità forte: nel luglio del 1943, durante l’occupazione tedesca, viene proclamato con grande coraggio uno sciopero di massa contro la guerra.

Gli anni della  seconda guerra mondiale sono comunque, per l’Elba, in parte differenti rispetto al resto della penisola e anche quelli dell’occupazione tedesca, almeno fino al 17 giugno 1944.

Sull’isola però non si parla mai di liberazione, ma di “sbarco” e i ricordi legati a quella data, al contrario di quelli degli altri italiani, non sono belli: lo sbarco avviene la mattina del 17 giugno 1944 sulla costa meridionale dell’isola, fra Pomonte e Marina di Campo. I reparti sono formati da marocchini in un primo momento e senegalesi in un secondo, truppe francesi di stanza in Corsica. L’operazione Brassard, comporta lo sbarco, al comando di ufficiali corsi, forse incattiviti dall’occupazione italiana a casa loro, di circa 15.000 uomini, giovani africani delle colonie, strappati ai loro villaggi, addestrati sommariamente, spesso sotto effetto di alcool e droghe, e mandati a combattere e a morire. Molti di loro saltano in aria perché le spiagge erano state minate dai tedeschi e perché non sufficientemente protetti dagli alleati angloamericani. Alla fine del 17 giugno viene liberata la parte occidentale dell’isola, mentre i tedeschi si oppongono ancora nella parte orientale che cederà dopo 2 giorni. Ai soldati francesi superstiti, a risarcimento dei rischi subiti, viene come concesso un antico "diritto" di preda: questi uomini possono darsi alla rapina, ai furti, alle violenze, come si evince dai rapporti stilati dal Ministero e da altri documenti storici ufficiali, oltre che da fonti orali. Infiniti furono gli episodi di violenza nei confronti anche di bambini, circa 200 donne furono ripetutamente violentate e stuprate, il tutto davanti a una popolazione che non aveva mai assistito ad un tale scempio, nemmeno da parte degli occupanti tedeschi. Probabilmente i numeri furono ancora più alti, ma mancano spesso le testimonianze dirette, sostituite da una reticenza dettata dal trauma e dalla vergogna, che tuttora caratterizza alcune anziane testimoni. Molte donne riuscirono a salvarsi nascondendosi in rifugi talvolta incredibili, per esempio murate in cascinali di campagna dai padri e dai mariti. Per molte le conseguenze furono gravidanze frutto delle violenze e l’abbandono da parte dei mariti  ritornati sull’isola. In questo scenario drammatico e sconcertante spicca la figura di Olimpia, che, secondo molte testimonianze, quando viene a sapere del comportamento dei soldati francesi, si fa avanti e si offre loro spontaneamente pur di salvare la vita, l’onore e la dignità di tantissime donne e facendo loro da scudo. A quei tempi Olimpia ha 21 anni ed è già molto conosciuta. Si dice che avesse detto ”Ormai, uno più o uno meno, per me non è un problema, ma per loro sì”: in questo modo riuscì a salvare tante ragazze dalla violenza, invitandole anche a vestirsi di nero, a coprirsi il capo, a  diventare invisibili. Per anni e anni e fino ad oggi, il gesto di Olimpia è stato raccontato, tramandato, alterato, esaltato, negato. La rivista “Grand Hotel”, addirittura, pubblicò un fotoromanzo che raccontava, ovviamente con la cifra tipica del giornale, la storia di Olimpia e della sua scelta.

La guerra finisce, Olimpia riprende la sua vita, conosce Arrigo, un ambulante ebreo, originario di Livorno, il suo ultimo compagno, con il quale istaura una relazione duratura; vivono in via Elbano Gasperi, già via del Paradiso (in Piazza Padella, oggi Piazza Pietro Tràditi, vi sbocca via Roma, parallela di via Elbano Gasperi: questa zona, dove tutt’oggi sale una scalinata, era detta via degli Ebrei). Olimpia aiuta Arrigo nel suo mestiere. E’ in questi anni che molti abitanti di Portoferraio, alcuni ancora ragazzi, conoscono Olimpia ed è dalle loro testimonianze che possiamo ricavare alcune informazioni sul suo passato, su quel presente. Gloria Peria, responsabile da 15 anni della Gestione Associata Archivi Storici dei Comuni elbani, afferma di aver conosciuto Olimpia da bambina e la ricorda come una donna semplice e vivacissima. Era la compagna di Arrigo, un ebreo sempre con la chippà, copricapo che suscitava in lei grande stupore. Avevano un banco al mercato, ai tempi nell’attuale Piazza della Repubblica con oggetti per la cucina e biancheria per la casa. Olimpia e Arrigo sono gentilissimi e Olimpia è una donna vistosa, sempre con un rossetto vivace e riccioli che tradiscono lunghe sessioni di bigodini.

Gloria ricorda ancora che andava al mercato dove c’era Olimpia con sua nonna, ma che a casa non si parlava di lei né tanto meno del suo gesto durante lo “sbarco”: quell’episodio era un tabù. Tutti però sapevano perché a quei tempi a Portoferraio tutti si conoscevano e condividevano la vita di tutti, prescindendo dalla classe sociale di appartenenza. Negli anni ’60 in via dell’Amore, la via più popolare della città, vicino alla casa di Olimpia e Arrigo, vigeva una sorta di solidarietà reciproca. Il centro storico, conclude Gloria, ora degradato a livello urbanistico, era bellissimo e tipico di questo modo di vivere.

Ma la testimonianza più interessante è quella di Gian Battista Fratini, sindaco di Portoferraio (dal 1973-1978 e dal 1995-2000), uno dei politici più autorevoli dell’Elba per più di 30 anni, personaggio della sinistra elbana. Fratini afferma che Olimpia era una sua carissima amica, non era una prostituta, ma amava fare l’amore con gli uomini a cui voleva bene. Conferma che durante lo “sbarco” ha salvato molte donne e ciò che si racconta al proposito è tutto vero.  Uno zio di Fratini aveva avuto una relazione con lei, avrebbe voluto svilupparla in un rapporto più stabile, ma lei non aveva voluto. Olimpia aveva due sorelle, una disabile e una che subito dopo la guerra aveva partorito un bambino nero, frutto probabilmente di una violenza di un soldato dello “sbarco”. Anche la mamma era in difficoltà, ma Olimpia ha sempre aiutato tutte e tre con devozione e coraggio. Olimpia mai, negli anni in cui Fratini aveva ricoperto cariche istituzionali, aveva approfittato della loro amicizia per interessi personali o per farsi aiutare, sebbene ne avesse tanto bisogno. Ed è Fratini che chiarisce anche la storia di una medaglia d’oro al valore civile con cui Olimpia sarebbe stata insignita: il dott. Giuliano Meo, vice segretario e poi segretario generale del Comune di Portoferraio, si era personalmente interessato per un riconoscimento ufficiale ad Olimpia e al suo coraggio, forte di molte informazioni raccolte in un pubblico ampio che spesso parlava di quanto successo dopo lo “sbarco”. Aveva inoltrato una richiesta ufficiale alla Prefettura di Livorno tramite i due onorevoli Poli e Bertucci, rispettivamente del PSDI e di Alleanza Nazionale, ma tutto era stato vano perché mancava una testimonianza documentata di una persona attiva nei fatti: se mancano testimoni oculari è impossibile conferire una medaglia d’oro al valore civile. E qui si ritorna al discorso della ritrosia delle donne nel testimoniare ufficialmente quanto accaduto. E’ una ritrosia che purtroppo caratterizza le donne vittime di violenza: una rimozione collettiva talvolta ancora presente nei discorsi dei testimoni.

Infine, anche Milena Maranca ricorda che Olimpia, nata in una famiglia di umili origini e destinata ad un futuro di indigenza, ha provato a contrastare il suo destino con un’indole solare e generosa. In effetti i poveri proventi del suo mestiere di lavandaia erano probabilmente arrotondati dai regali degli uomini a cui si concedeva, forte del suo carattere esuberante e disinibito. In questo modo però riusciva a sfamare la sua famiglia e ad aiutare amici e conoscenti più poveri di lei.

Olimpia muore nel 1985, circondata dall’affetto di chi le voleva veramente bene e a cui aveva voluto bene. La salma, tumulata nel cimitero comunale di Portoferraio, è stata traslata, e a distanza di tempo i suoi resti sono stati posti nell’ossario comunale. Non si ha quindi una tomba dove ricordare questa donna definita da molti “un’eroina che ha salvato l’onore di molte donne elbane, una partigiana, a suo modo, in una Resistenza senza medaglie e celebrazioni. Una Resistenza ferita”. A maggior ragione quindi è arrivata la richiesta di Dante Leonardi al Sindaco di Portoferraio, Angelo Zini, di dedicare una via ad Olimpia Mibelli, sulla scorta di tutte le testimonianza raccolte. In attesa di una decisione da parte dell’Amministrazione Comunale è importante ricordare come Olimpia faccia ancora riflettere e interrogare le menti, come testimonia l’ultimo libro di Paola Cereda, La figlia del ferro, che attraverso una trasfigurazione letteraria, recupera la sua figura, permettendo altresì di ripercorrere la storia di anni, sull’isola d’Elba, non ancora del tutto elaborati ed interpretati

 

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Olimpia Mibelli Ferrini

 Giuseppe Conti, Le tre api d’oro, Meschi industria grafica, 1976 Paola Cereda, La figlia del ferro

 C. Sgherri, Ricordo di Olimpia, “Il Corriere elbano”,  30 giugno 1985

 Arnaldo Nesti, Provincialia, Scavi sull’identità degli Italiani, Ed. Polistampa, Firenze 1999

 Tiziana Noce,  Voci di vita elbana, Coop Toscana Lazio 2003

 AA.VV. Olimpia, “Lo scoglio”, Elba ieri, oggi, domani

 Gianfranco Vanagolli,  Cronache elbane 1940 – 1945, Giardini editori e stampatori in Pisa 1991

 APLIPf, Relazione sulla permanenza delle truppe francesi all’Elba, Ms inedito, 24-10- 1944, s.c.

 Milena Maranca, ISOSEI per 11 settimane. I personaggi di”se tornasse oggi”, 4 Agosto 2018

• FONTI ORALI: Gloria Peria e Giambattista Fratini

Vivi e grati ringraziamenti vanno a Franco e Lucia della Biblioteca Foresiana di Portoferraio e a tutti coloro che a vario titolo hanno contribuito alla ricostruzione della biografia di Olimpia

Voce pubblicata nel: 2023

Ultimo aggiornamento: 2023