«(Le capacità) non sono semplicemente delle abilità insite nella persona, ma anche le libertà o opportunità create dalle  combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale ed economico».

Martha C. Nussbaum

La storia di Rosa Mazzola non è una storia speciale, se non per quelli che le hanno voluto bene. Ma è interessante proprio per i suoi elementi di ordinarietà, di somiglianza con quella di tante altre donne della sua epoca e della sua classe sociale. Una storia di opportunità negate.

Nata il 21 novembre 1925 a Zoate, nella campagna a sud di Milano, era la sesta figlia di Domenico, che svolgeva funzioni di “sciaffeur” per i proprietari delle cascine della zona. Aveva perso la madre, morta a seguito di una nuova gravidanza, quando aveva poco più di un anno e il rimpianto per la presenza materna fu una costante della sua vita. I figli ricordano che spesso spiegava loro quanto fossero fortunati ad avere la madre vicino, a poterne godere la presenza e le attenzioni.

Lei era stata cresciuta con la nonna paterna, severa, avara di tenerezza. O forse troppo oberata di lavoro per potersi dedicare alla piccola orfana.

Per Rosa la scuola fu una parentesi breve, che durò solo fino alla 4° elementare. Poi cominciò l’esperienza del lavoro, facendo i “mestieri” presso le famiglie dei fittavoli o dei proprietari agricoli. Di quel periodo ricorreva il ricordo della merenda con pane bianco, burro e zucchero che, solo eccezionalmente, poteva condividere con i figli dei “padroni”.

La sua famiglia, secondo l’uso del tempo, si spostava da una cascina all’altra, anche se nel suo caso le permanenze erano abbastanza lunghe. Dopo aver vissuto in vari paesi della Bassa milanese, si stabilì a Cerro al Lambro dove il padre aveva trovato lavoro come stradino.

Rosa non chiedeva molto. Anche se studiare le sarebbe piaciuto, si sarebbe accontentata di fare la sarta. Invece per lei ci furono i campi, per lunghi anni, che le lasciarono come ricordo una malattia reumatica che la tormenterà per anni.

Rosa divenne una delle tante mondine che lavoravano nelle risaie della zona. Nei suoi ricordi di quel periodo non troviamo nulla di quell’atmosfera epica, di lotta e riscatto che caratterizza l’esperienza di altre donne.

Lo dimostrano le sue parole, tratte dal testo di un’intervista che le è stata fatta nel 2007:

«Quando e per quanto tempo ha fatto la mondina?»

«Ho cominciato nel 1937, quando avevo 12 anni e ho continuato fino al 1952. Quando ho cominciato ad andare in risaia quando non avevo ancora raggiunto l’età di lavorare, capitava che venissi nascosta nel solco vicino all’acqua per sfuggire al controllo dell’ispettore.»

« In che zona lavorava?»

«Nelle cascine di Cerro al Lambro, Cascina Volpere, Belvedere e Cascinette. Andavo in risaia a piedi, le risaie erano a circa tre chilometri dal paese.»

« Che orario faceva?»

«Lavoravo 10, 12 ore. Era un lavoro duro: mi ricordo che quando avevo circa 16 anni lavoravo per il signor Antonio Danelli, che riprendeva sempre le mondine perché secondo lui non lavoravano abbastanza alacremente. Voleva che tenessimo giù la testa, minacciando se non lo avessimo fatto di “farci prendere l’argine” cioè di mandarci via. Una volta che gli ho risposto per le rime, mi ha allontanata. Io, per non farmi sgridare da mio padre, non sono tornata a casa e sono rimasta tutto il giorno sotto una pianta all’ombra.»

«C’erano anche mondine forestiere?»

«Nelle cascine dove lavoravo io, no, ma alla Cascina Leona, che si trovava anch’essa nel territorio di Cerro al Lambro, c’erano delle donne che venivano da San Colombano al Lambro[1] . Mi ricordo che dormivano in cascina.&arquo;

«C’erano differenze di trattamento tra le mondine locali e quelle forestiere?»

«Siccome non c’era alcun contatto tra di noi non era possibile fare confronti.»

«Quando è stata regolarmente assunta? Che salario percepiva?»

«Non sono mai stata messa in regola: in 15 anni di lavoro mi sono stati pagati i contributi solo per 4 anni, non mi sono mai stati dati i pasti, non veniva organizzata alcuna custodia per i figli delle mondine, come mi si dice che altrove avvenisse. Io lasciavo mio figlio, nato nel 1949, a una vicina. Non mi hanno mai dato neppure il quantitativo di riso che poi ho saputo che mi sarebbe spettato.»

«Nelle risaie dove lavorava c’era una qualche forma di rappresentanza delle lavoratici e qualcuno che le tutelasse?»

«No»

«Esisteva una qualche forma di associazione o di coordinamento tra le mondine?»

«No.»

È come se la lotta organizzata e la consapevolezza politica che ne derivava, l’orgoglio e la percezione di poter contribuire a cambiare la società le fossero passati accanto senza toccarla. Anche durante la guerra non fu parte attiva. Del periodo ricorda la durezza delle condizioni di vita, la povertà, gli stenti e un solo bombardamento, che distrusse un ponte e uccise una bimba.

Non amava i fascisti; suo padre era di solida fede socialista, ma ancora una volta la storia passò nella vita di Rosa senza coinvolgerla. Eppure sentendola parlare si avvertiva una sottile, radicata percezione di quanto fossero ingiuste le sperequazioni sociali e l’indistinto, prepolitico, sogno di un mondo in cui ci fosse maggiore equità e le opportunità fossero offerte a tutti. E a tutte.

Quella percezione, in lei quasi inconsapevole, seppe trasmetterla comunque al figlio, che la ereditò ed elaborò trasformandola in consapevole impegno politico.

Nell’immediato dopoguerra, Rosa conobbe Piero Anelli, un operaio che lavorava in una trafileria a Milano. Andava al lavoro tutti i giorni in bicicletta, dopo che il trenino Gamba de Legn cessò il servizio.

Si sposarono e dopo il viaggio di nozze - una gita a Melegnano, a quattro chilometri da Cerro - la coppia si stabilì nella cascina in cui già abitava la famiglia di lei. Una casa senza acqua corrente, con i servizi comuni. Rosa continuava a lavorare nelle risaie e si occupava della casa, del marito, del padre e del fratello che vivevano con lei.

Dal matrimonio nacquero due figli: nel 1949 Adelio e nel 1957 Emanuela.

Nel frattempo Rosa aveva trovato lavoro come cuoca nelle scuole del paese, purtroppo senza una regolare assunzione, e aveva lasciato le risaie, anche se l’impegno domestico per le donne di famiglie a basso reddito restava gravoso.

Man mano le condizioni economiche della famiglia migliorarono, Rosa potè persino permettersi di comprarsi della bella “lingeria”. Evidentemente era la sua passione: ne ha lasciata tanta, ancora intatta, quando se n’è andata, il 12 gennaio 2008.

NOTE

1. Paese a 25 Km. da Cerro.

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Fonti, risorse bibliografiche, siti su Rosa Mazzola

Referenze iconografiche: immagine proveniente dall'archivio familiare.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023