«Mi chiamo Samira Ibrahim Mohamed. Sono nata nel 1986, a Sohag».

La giovane Samira Ibrahim parla in termini pacati di avvenimenti che hanno sconvolto le donne egiziane dopo la rivoluzione. Questa giovanissima ragazza, laureatasi a Sohag, si è occupata di marketing, in un'impresa di cosmetici che oggi non vuole nominare. Nel 2011 si trova al Cairo, per seguire dei corsi sullo sviluppo delle risorse umane. Ma la primavera del 2011 per l’Egitto non è una primavera qualsiasi. Come tanti giovani egiziani, Samira viene coinvolta nelle manifestazioni della rivoluzione del 25 Gennaio 2011. È stata arrestata il 9 marzo dalle forze della contro-rivoluzione e inizialmente ammanettata e trascinata in terra, insieme a sedici altre ragazze, in una sala del museo Egizio dove le aspettava un ufficiale dell’esercito. Altre donne erano state mescolate a loro, prostitute che insultavano i soldati.

Un ufficiale ha chiamato Samira con un sorriso gioviale: «Sei tu Samira? Vieni che parliamo». Sembrava rassicurante ma ha iniziato l’interrogatorio con una scarica all’addome della ragazza. Era stata già spruzzata con acqua, trascinata in terra, e schiaffeggiata diverse volte. Sputi in faccia e invettive volgari si erano aggiunte alle altre umiliazioni. E le ragazze erano accusate a torto di trasporto di bottiglie Molotov, distruzione dei marciapiedi di Midan Tahrir, la piazza occupata dai giovani rivoluzionari, trasporto di armi bianche, e disturbo del traffico. Accuse assolutamente ingiustificate. Venivano accompagnate poi una per una in una stanzetta dove venivano picchiate e forzate a svestirsi davanti a diversi soldati e sottomesse alla grande umiliazione dei test di verginità. Non c’era modo di resistere sotto i colpi e le scariche elettriche che piovevano. Un giovane ufficiale, presumibilmente un medico, aveva forzato Samira, come le altre, ad aprire le gambe mentre la toccava a lungo con la mano. I soldati ridevano in disparte e lei si chiedeva perché non riusciva a morire piuttosto che vivere con il ricordo di queste torture. «Era la nostra festa, secondo loro» dice Samira, con la sua consueta spontaneità. Sono poi state portate in un furgone alla prigione militare dove si teneva la messa in scena di una seduta della corte marziale. Sono state condannate ad un anno di carcere e minacciate di morte dai soldati. Nel corso di questa giornata in prigione, i soldati che facevano i turni, a quattro per quattro, avevano infierito su di loro “per festeggiare”.

Di ritorno a Sohag, Samira ha impiegato due mesi a rimettersi fisicamente e psicologicamente. Non riusciva a credere che chi avrebbe dovuto proteggerla aveva scelto di umiliarla in questo modo. Aveva perso il posto di lavoro e le colleghe non rispondevano alle sue telefonate. Le altre ragazze le avevano consigliato di tacere e di proseguire con la propria vita, ma suo padre, che era stato spesso incarcerato per ragioni politiche le ricordava che la storia si ripete. Pensava alle sevizie subite nelle varie prigioni in passato. L’idea che fosse successo anche a sua figlia gli era insopportabile.

L’affetto e la solidarietà del padre hanno probabilmente dato alla ragazza il coraggio di iniziare una causa contro l’esercito e il medico militare. «Io non sono stata disonorata ma loro si», ha detto diverse volte. Un tribunale civile ha riconosciuto l’esistenza dei test, in seguito ad una dichiarazione sottratta da Amnesty International ad un generale membro del Consiglio Supremo delle Forze Armate. Questo generale aveva detto che i test di virginità erano un modo di evitare accuse di stupro da parte delle carcerate, ma per Amnesty queste pratiche sono torture. Il tribunale civile ha «ordinato che la pratica dei test di verginità sulle ragazze all’interno delle carceri militari sia fermata». La corte militare, invece, ha rifiutato le accuse e ha dimesso il militare incolpato. Samira ha vinto il suo processo in un certo senso perché il suo calvario non sarà mai più subito dalle altre donne, ma si dispera perché la giustizia non funziona nel suo paese. Ha ricevute telefonate oscene e minacce di morte. Molti la criticano perché non ha voluto evitare lo scandalo, ma i giovani rivoluzionari e persino certi fondamentalisti si dichiarano fieri di lei e del suo coraggio. «Non sei stata disonorata, Samira, sei una ragazza della piazza, si sono disonorati il governo e i militari». Ma Samira ride con amarezza e parla in termini chiari: «Non riesco più a credere nei giudici, ahimè, e abbiamo eletto un parlamento che ci punisce. Ci aspettano tempi difficili perché hanno ostacolato la rivoluzione. I rivoluzionari o sono massacrati o spariscono nelle carceri militari. Falsi ladri di macchine e di istituti bancari molestano o ammazzano i civili. Siamo puniti per aver cercato la libertà. I parlamentari criticano le ragazze che portano il bikini ma sono colpevoli di prostituzione politica». Una vera e propria strategia della tensione è in atto. Il presentatore di un programma della tv le dice, alla fine di un’intervista: «Sei giovane, Samira, ma chissà, con la tua determinazione, diventerai forse un giorno la prima donna Presidente della Repubblica, come Dilma Rousseff in Brasile». Forse aveva notato un somiglianza tra le due donne.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2018