L’esperienza del mondo esterno e l’esperienza interiore che il bambino sta costruendo sono sempre interdipendenti (…), introiezione e proiezione operano fianco a fianco fin dalle origini della vita”.
(Tecnica psicoanalitica del gioco, in Nuove vie della psicoanalisi)

Geniale, coraggiosa, pioniera, indomita, prolifica e anche mitomane… Sono molti gli aggettivi a lei riferiti che si incontrano leggendo i commenti critici e le introduzioni dei vari autori alla monumentale e controversa opera di Melanie Klein. La sua biografia potrebbe essere sintetizzata in tappe relativamente lineari, segnate, nelle sue svolte più significative, dalla influenza degli uomini che hanno fatto parte della sua vita. Il padre medico la orienta agli studi di medicina che lei poi abbandonerà dopo la nascita dei tre figli. Si sposa poco più che ventenne e, col trasferimento a Budapest nel 1910 – per seguire le esigenze lavorative del marito – viene in contatto con le teorie freudiane. Lì incontra Sandor Ferenczi col quale inizia l’analisi personale e che sarà determinante per la sua carriera di analista.

Da una angolatura più intima, incontriamo una donna triste, soggetta a diverse crisi depressive, con una vita costellata di sofferenze, dominata dalla figura imponente di una madre possessiva e invadente che la giudica nevrastenica e che esercita sui suoi figli e sul suo matrimonio un controllo intrusivo. (cfr. Kristeva). Non può sfuggire il fatto che il problematico rapporto con la madre abbia influito in modo determinante sul percorso clinico e teorico di Melanie Klein. Con l’incoraggiamento del suo analista si dedica alla psicoterapia infantile fino ad allora assai poco diffusa e mai praticata con bambini nei primi anni di vita. Nel 1919 presenta alla Società Psicoanalitica Ungherese il suo primo lavoro Sviluppo di un bambino, basato sull’analisi dei suoi figli, che già lascia intravvedere la sua acuta capacità di osservazione clinica. (cfr introduzione di Lydia Zaccaria Gairinger a La psicoanalisi dei bambini)

L’anno successivo venne chiamata a Berlino da Karl Abraham che la volle come collaboratrice e col quale proseguì la sua analisi personale. Alla morte prematura del maestro, che visse con intenso dolore, Melanie Klein si stabilì nel 1926 a Londra, invitata da Ernst Jones che vide in lei un elemento di particolare valore da assicurare alla Società Britannica di Psicoanalisi, di cui allora era presidente. In quegli anni divorzia dal marito, subisce il tragico lutto della morte del figlio Hans, in un incidente di montagna, e vede degenerare il rapporto con la figlia primogenita Melitta, diventata a sua volta analista, ma grande oppositrice delle teorie della madre. (cfr Gaddini, introduzione a Hanna Segal)

Teoria e clinica. Melanie Klein è la prima psicoanalista che si dedica completamente alla analisi infantile. Benché costellato di invenzioni di metodo e di concetti clinici innovativi, il suo lavoro ha spesso ricevuto, da parte dei critici, l’accusa di una fondamentale carenza di elaborazione teorica. "Quarantun anni di indefessa fatica e non una sintesi!", qualcuno dice di lei. Melanie Klein resta, per così dire, indifferente a questa critica. È soprattutto una clinica coraggiosa, poco interessata a dare sistematicità alle proprie scoperte. Per lei l’esperienza della cura è per eccellenza il luogo della ricerca di cui la teoria non può che essere un derivato. Così è stato per Freud fin dalle origini, così continua a essere, anche nel presente, come peculiarità di ogni indagine nel campo delle scienze cliniche. Pertanto, Klein procede per approssimazioni successive, con grande onestà intellettuale, ritornando a più riprese propri passi, affermando e rivedendo quello che va scoprendo.

Mentre una schiera di detrattori critica il suo deragliare dalla ortodossia freudiana, altri commentatori celebrano la sua statura considerandola la più ardita rifondatrice della psicoanalisi moderna. (Gaddini, in Segal, p.8) Chi si aspettava una sintesi, dunque, resta deluso. Ci pensa Hanna Segal, una delle più autorevoli rappresentanti della Scuola Inglese, che si cimenta, a tredici anni dalla scomparsa di Klein, in un inquadramento coerente dei concetti kleiniani, nel suo famoso testo del 1973 Introduction to the Work of Melanie Klein.

Quando si riteneva che i bambini non fossero analizzabili, in quanto incapaci di fare libere associazioni e di sviluppare una relazione di transfert con l’analista, Melanie Klein si avventura nella pratica terapeutica basata sulla tecnica del gioco e scopre che questo può essere utilizzato come le libere associazioni vengono utilizzate nell’analisi degli adulti. Osservando poi che i bambini vivono nei confronti dell’analista atteggiamenti riconducibili a fantasie remote, tenta di ricostruire in termini psicodinamici i vissuti dei primi mesi di vita e traccia così il disegno delle prime vicende dello sviluppo psichico. Contesta il fatto che esista una fase di autismo precoce e postula che il bambino sperimenti fin dalla nascita una vita di relazione, grazie alla presenza di un Io rudimentale bio-psichico che è naturalmente organizzato per il contatto umano.

Sulle vicende precoci di presenza-assenza della madre, vicinanza-distanza, soddisfazione e mancanza, si dispiega un teatro di impulsi di amore-odio, di desiderio e ostilità che si organizza in fantasie primitive. La cura, il calore, la soddisfazione fanno percepire al bambino la presenza di un oggetto primario buono, mentre la fame, il freddo e ogni condizione sgradevole viene sentita non già come mancanza, ma presenza di un ambiente ostile, pericoloso e persecutorio che il bambino incorpora, che sente come oggetto interno cattivo e rispetto al quale attiva energie per difendersi, proiettando all’esterno ciò che vive come danno. Data l’immaturità del neonato, queste prime esperienze non vengono ricondotte al rapporto con una madre come persona intera, ma scisse come se fossero attribuibili a due fonti separate. Melanie Klein definisce seno buono e seno cattivo tale esperienza scissa, costituita da oggetti parziali e chiama posizione schizo-paranoide il campo di queste vicende primitive che si collocano nei primi mesi di vita.

Sarà verso il sesto mese, con l’acquisizione di competenze neuro-biologiche e percettive e con lo sviluppo della memoria, che l’Io infantile conquista la possibilità di una sintesi che gli permette di percepire un rapporto con la madre come un essere unificato, un oggetto intero, capace di essere presente o assente, allontanarsi e sparire, buona e cattiva al tempo stesso. Il riconoscimento della madre come persona intera va di pari passo con l’integrazione dell’Io infantile, anch’esso sentito come totale. Qui le ansie del piccolo perdono il loro carattere persecutorio, attivano intensi vissuti di ambivalenza e si orientano a conservare l’oggetto e la sua benevolenza. Melanie Klein denomina questa complessa esperienza posizione depressiva, che porta alla tollerabilità della separazione e si fa genesi dell’attività simbolica, indispensabile per acquisire il linguaggio. In questo tempo, caratterizzato dalle tempeste dei vissuti di perdita, dei sentimenti di colpa, di invidia e di gratitudine, si attivano tendenze riparative destinate a restaurare l’oggetto d’amore danneggiato dalla propria aggressività. Alla posizione depressiva viene ricondotta l’emergere della capacità creativa. Molti studiosi riterranno in seguito che queste geografie descritte dalla Klein abbiano permesso di gettare nuova luce non solo sulla pratica del lavoro analitico coi bambini, ma siano di una portata teorica fondamentale anche per il trattamento di disturbi mentali gravi nell’adulto, come la schizofrenia paranoide e la psicosi maniaco-depressiva.

Apporti. Difficile sintetizzare i molteplici aspetti originali della sua teoria. Prima di tutto va detto che Melanie Klein inaugura la psicoanalisi relazionale che farà Scuola negli anni successivi ed è a tutt’oggi considerata una via maestra. Nei suoi punti essenziali il suo contributo riguarda la centralità della madre nello sviluppo della persona e la separazione da lei – che non esita a chiamare matricidio – come fattore determinante per l’emancipazione e per lo sviluppo sano del pensiero e del linguaggio. Nel descrivere l’evoluzione del bambino non parla di fasi o stadi evolutivi da superare ma usa il termine di posizioni per sottolineare il fatto che i fenomeni da lei descritti sono costellazioni permanenti, che restano incorporate nella memoria pre-narrativa, disponibili e presenti nell’inconscio di ogni umano. Questo porta ad affermare che la radice della psicosi è nella preistoria di ciascuno e che, se non sufficientemente elaborati, questi vissuti possono manifestarsi nella vita adulta. Lo confermerebbe, ad esempio, la tendenza tribale a proiettare il male nel nemico esterno per proteggere il gruppo dall’angoscia di frammentazione, la presenza pervasiva nel mondo sociale dell’invidia distruttiva e dell’avidità predatoria, o il persistere di impulsi primitivi quando il sano bisogno di conoscenza si fa perverso e può portare al desiderio di spaccare il mondo per sapere come è fatto. (Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra, p.18)

Ma chi ha visto in lei solo la teorica del terrificante interno, non ha colto fino in fondo un iter di pensiero, forse idealizzato, ma senza dubbio, prevalentemente pro vita. Melanie Klein, che pur coglie nella presenza delle forze distruttive e, nella frammentazione la paura più profonda, postula una tendenza innata all’integrazione e alla armonia relazionale. L’umano avrebbe da subito, come caratteristica naturale e dominante della vita psichica, un attaccamento al senso di essere vivo e a proteggere la propria vitalità. (Nuove vie della psicoanalisi, p.404) E fonda, attraverso l’accurata analisi della dinamica depressione-riparazione una teoria del pensiero creativo.

Le tesi kleiniane furono oggetto di aspri dibattiti. La contrapposizione alle teorie freudiane era esplicita e causa di animate controversie. Il conflitto con Anna Freud fece epoca e fu una delle cause della rottura con la figlia Melitta che con lei si era schierata. Ma ciò non portò mai a una rottura nell’ambito della società Psicoanalitica Britannica. Il suo pensiero restò e resta un orientamento con una propria identità che è da tempo interamente integrato, gode oggi del massimo riconoscimento ed è riferimento teorico e clinico per voci autorevoli. Wilfred Bion ne fa il fondamento dei suoi celebri studi sulle dinamiche di gruppo e sviluppa ulteriormente le sue tesi per la comprensione della mente; Elliott Jaques contribuisce alla conoscenza dei processi sociali e istituzionali, attraverso le sue mappe; Marion Milner a partire da lei, studia la formazione della capacità simbolica. E ancora, tra coloro che hanno proseguito e approfondito ulteriormente il campo della psicoterapia infantile, troviamo nomi eccellenti come Donald Winnicott e Françoise Dolto. Da lei prende avvio il percorso teorico e clinico di Michael Balint, anch’egli ungherese e allievo di Ferenczi, considerato il padre della psicoterapia relazionale. Per arrivare alle voci più recenti dello stesso Lacan che ne trae numerose ispirazioni e al tributo di Donald Meltzer che dedica ben tre volumi allo Sviluppo kleiniano.

In Italia Franco Fornari è il primo ad introdurre il suo pensiero. Nel libro La vita affettiva originaria del bambino che esce nel 1963, con diversi anni di anticipo sulla prima traduzione dei testi inglesi, Fornari riconosce che le sue teorie e l’analisi attraverso la tecnica del gioco hanno condotto ad un approfondimento e a una radicalizzazione delle teorie freudiane e ritiene che “Il contributo cha la Klein ha portato allo sviluppo della psicoanalisi contemporanea sia il più importante dopo la scomparsa di Freud”. Altri suoi testi famosi: Psicoanalisi della guerra e Psicoanalisi della guerra atomica sono ispirati ed esplicitamente debitori delle teorie kleiniane, là dove Fornari utilizza i concetti di scissione, di identificazione proiettiva, introiettiva e di elaborazione paranoica del lutto per analizzare i moventi inconsci dei conflitti bellici. Libri di straordinaria attualità.

Melanie Klein muore a Londra nel settembre 1960, all’età di settantasette anni. Una vita di passione creativa, di forte determinazione e di libertà intellettuale alla quale è doveroso riconoscere un contributo fondamentale alla conoscenza dell’inconscio iniziata con Freud. Di quel mondo-ombra, oscuro al soggetto stesso che lo porta in sé, ma che tuttavia lo determina così profondamente, Melanie Klein non coglie solo il suo essere luogo del rimosso, dello scarto, del dolore, della colpa. Riesce a vedere lì anche la fonte inesauribile dell’attaccamento alla vita e della creatività umana. Racconta che il dolore psichico anche precoce possiede in sé forze vitali originarie. Postula l’esistenza di un naturale istinto epistemofilico come tensione innata alla conoscenza. Vede nel processo di integrazione di bene e male, nel dramma tra invidia e gratitudine e nella separazione dalla madre, la via maestra -sempre in bilico- che porta alla capacità di creare simboli e alla capacità di pensare.

Questa donna, che diventò caposcuola, celava, dietro alla sua apparente sicurezza un’eccezionale permeabilità all’angoscia, simbolizzata e perciò vivibile, perché vinta dal pensiero. Questo le ha dato il gusto e la forza di non indietreggiare davanti alla psicosi, ma di curarla con più attenzione di quanto fece Freud”.
(Julia Kristeva p. 12)

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Melanie Klein

I riferimenti essenziali per un incontro col pensiero di Melanie Klein sono certamente i suoi libri più famosi: La psicoanalisi dei bambini (Martinelli, Firenze 1969; The Psychonalysis of Children, The Hogart Press, London 1932); Amore odio e riparazione del 1937, esce da Astrolabio, Roma nel 1969; Invidia e gratitudine (1957) arriva da noi nel 1969 per la editrice Martinelli di Firenze.
Di rilievo anche il testo del 1955 da lei curato: New Directions in Psychoanalysis, tradotto in Italia nel 1966 dal Saggiatore: Nuove vie della psicoanalisi. Il significato del conflitto infantile nello schema del comportamento dell’adulto. Contiene due suoi importanti saggi: Tecnica psicoanalitica del gioco: sua storia e suo significato e Sull’identificazione. Raccoglie inoltre più di una ventina di rilevanti contributi di autori che si sono mossi sulla scia delle sue intuizioni.

Su di lei la letteratura è sterminata. Imprescindibile il libro di Hanna Segal: Introduzione all’opera di Melanie Klein, pubblicato in Italia dall’editrice Martinelli nel 1968 e più volte rieditato. Il testo è anche corredato da un accurato glossario in cui l’autrice definisce i termini coniati dalla Klein e il suo modo specifico di utilizzare i concetti della tradizione psicoanalitica. Donald Meltzer, considerato uno dei padri della psicoterapia relazionale, le dedica tre volumi del titolo Lo sviluppo kleiniano (Borla, Roma 1983). Nel 2006 l’editrice Bollati e Boringhieri pubblica: Melanie Klein. Scritti 1921-1958.

A Julia Kristeva, infine, va riconosciuto il merito di una ricognizione accurata in cui la vita della donna, della ricercatrice e dell’analista viene percorsa in un continuo intreccio tra scoperte cliniche e travagliata vita personale. Lo stesso titolo originale della sua opera: Melanie Klein, ou le matricide comme douleur et comme crėativitė. Le genie feminen, pare cogliere l’essenziale del suo pensiero scomodo ma, come è evidente, una sorta di censura è intervenuta ad attutire la spietatezza del suo pensiero. L’editrice Donzelli (Roma 2006), infatti, pubblica la traduzione di questo bellissimo libro col semplice titolo del suo nome proprio: Melanie Klein.


Voce pubblicata nel: 2016

Ultimo aggiornamento: 2024