Elvira Mancuso appartiene a quella schiera di scrittrici italiane di cui poco o nulla si parla. Nata da una famiglia alto-borghese e figlia di un avvocato penalista definito da Salvatore Nigro come un “autentico patriota, oratore della parola fluente” 1, Mancuso può essere considerata una femminista ante litteram, sia per le proprie scelte di vita, sia per una pratica della scrittura che aspira alla parità dei sessi e alla critica della condizione delle donne in Sicilia, in un’epoca in cui le sporadiche opportunità di istruzione e di crescita intellettuale femminile vengono spesso condannate come immorali e sovversive.

Contemporanea di Maria Messina e Sibilla Aleramo, la giovane Mancuso pubblica nel 1889 il suo primo racconto Storia vera sulla rivista «Cornelia», fondata da Angelo De Gubernatis. Seguiranno quattordici articoli, usciti tra il 1890 e il 1891 e firmati alternativamente con gli pseudonimi di Lucia Vermanos e Ruggero Torres (soltanto dopo sedici anni di assenza dalla testata esce l’ultimo articolo firmato con il proprio nome). Nello stesso anno del dirompente e autobiografico Una donna (1906), una Mancuso letterariamente già matura pubblica a proprie spese Annuzza la maestrina, suo primo e unico romanzo che, per tematica e intenti, merita di essere accostato al discorso critico di Aleramo.

Accolto tiepidamente dalla critica dell’epoca (Capuana scriverà di “una dipintura della vita siciliana energicamente resa (…) nonostante le inevitabili incertezze e inesperienze di un primo tentativo” 2, durante i primi anni Ottanta il testo di Mancuso verrà riscoperto da Calvino e Sciascia, uscendo solo nel 1990 presso Sellerio con l’eloquente, sottotitolo originale Vecchia storia…inverosimile. Attualmente esistono traduzioni in inglese e in spagnolo, grazie a un’opera di riscoperta dell’autrice da parte del circuito accademico nazionale (Donatella La Monaca, Rita Verdirame) e internazionale (Elise Magistro, già critica e traduttrice di Maria Messina per il pubblico anglo-americano).

Sottilmente autobiografica, il romanzo narra la lotta personale di Annuzza Milazzo, nata a Pietraperzia da una famiglia povera, ma determinata a diventare maestra e a ribellarsi contro una società in cui pregiudizi radicati costringono e mortificano le donne entro i ruoli di moglie e madre. Come Annuzza, anche Elvira persegue l’affermazione di sé e considera il lavoro come l’unica strada verso il riscatto personale e sociale: rifiuta dunque di sposarsi per studiare, riuscendo a conseguire la laurea in lettere presso la Regia Università di Palermo, per poi dedicarsi all’insegnamento a tempo pieno, con vari incarichi e supplenze, fino al 1935. Il destino della sua eroina è ben diverso: dopo aver convinto la madre e il fidanzato Pasquale a sostenerla nel progetto di prendere il diploma magistrale prima di sposarsi, Annuzza accetta da quest’ultimo l’aiuto economico necessario ad affrontare il corso di studi, e finisce per rinunciare al matrimonio, mentre Pasquale, dopo essere finito in galera, sceglie di lasciar andare Annuzza e sposa un’altra donna. Le vicissitudini che conducono al tragico epilogo finale sottolineano la difficoltà di superare gli stereotipi di genere tipici della mentalità isolana e, più in generale, dell’Italia di fine Ottocento: accanto a una protagonista caparbiamente ancorata al proprio desiderio utopico di indipendenza intellettuale e professionale, emerge la figura di un uomo dapprima dolce e generoso, poi sempre più chiuso, ignorante e incapace di comprendere la legittimità del desiderio di indipendenza della donna amata, esclusivamente percepita come una sorta di creatura-oggetto:

“Che ne capiva, lui di tutte le belle cose ch’ella sapeva dire, con l’autorità e la sicurezza di un predicatore? E non poteva staccare gli occhi da quella personcina snella e piena di vita, che parlava più con lo sguardo, coi gesti, coi moti rapidissimi di tutto il corpo, che con le labbra”. 3

In Annuzza la maestrina l’analisi psicologica del dolore e del desiderio di emancipazione si esprime con i soliloqui della protagonista, impegnata in una sorta di ‘flusso di coscienza’ guidato da una narrazione onnisciente e, al tempo stesso, emotivamente partecipe. In parte echeggiando le scritture di autrici siciliane antecedenti, come il romanzo Maria Landini (1850) della messinese Letteria Montoro (dove un’eroina combattiva evita un matrimonio di interesse per affermare la propria libertà), la storia di Annuzza dà voce a una denuncia di carattere sociale da parte dell’autrice, conscia di appartenere a un’epoca che non considera le donne degne di occupare spazi di espressione professionale, o tanto meno artistica. La ‘vecchia’ storia di mancato affrancamento, tipica del Verismo a cui Mancuso è stata talvolta paragonata (anche per la vicinanza a un autore da lei molto ammirato come Capuana), si unisce alla novità effettiva sul piano della creatività letteraria, perché Annuzza narra la vita di una donna siciliana lontana dalle figure dolenti tradizionali, dotata di una coscienza individuale e tesa a difendere quella dignità dell’umano che contraddistingue la migliore letteratura isolana del Novecento, da Pirandello a Sciascia. La natura ‘inverosimile’ della trama coincide con l’indole piuttosto ‘moderna’, spesso ambigua e opportunista di Annuzza, la quale sceglie di non assecondare la morale del tempo per aspirare all’indipendenza economica e ideologica, arrivando anche a manipolare le persone a lei vicine per raggiungere il proprio obiettivo di emancipazione. Senza il coraggio atipico della protagonista, si potrebbe rubricare il romanzo come un ennesimo scritto di impronta verista: la simbiosi tra l’autrice e la sua eroina lo rende invece un piccolo esempio di scrittura dell’impegno femminile, capace di esprimersi in modo originale con un anticipo di cinquant’anni rispetto all’avvio dei movimenti femministi.

Durante i primi decenni del Novecento Mancuso continua a scrivere poesie e racconti, spesso proseguendo l’analisi della società siciliana attraverso la denuncia reiterata di una femminilità tradizionale, come testimoniano i versi di Rèsede e ortiche (1906) e la raccolta Bagatelle (1909). In questo quadro, diventa secondaria la questione di un eventuale inserimento dell’autrice nel canone siciliano, perché la sua personale evoluzione si lega più intensamente a una stagione in cui le scrittrici del Novecento iniziano a tracciare itinerari personali alternativi alla pratica mainstream maschile, unendo la sperimentazione di vari generi letterari alla scrittura di saggi di carattere apertamente politico. Con sguardo lucido e intuitivo, nel 1907 Mancuso pubblica un pamphlet intitolato Sulla condizione della donna borghese in Sicilia: appunti e riflessioni dove, con toni spesso sarcastici e provocatori, delinea la propria appassionata critica alla discriminazione storica femminile su cui si basa la cultura isolana:

“Ebbene, da tutte le conquiste della borghesia, la donna siciliana non ha ricavato che il magro conforto di servire un padrone più libero, più potente, più lieto di vivere. Ella è rimasta, intellettualmente, assai inferiore all’uomo, e la coscienza di questa sua inferiorità la rende sì umile, che la sua perenne sottomissione, il sacrificio continuo dei suoi diritti, della sua personalità, le sembrano cose fatali e necessarie, ordinate dalla natura e da Dio. E l’uomo che la governa e la opprime, e ne pretende i più ingiusti, assurdi sacrifici, è assai sovente in buona fede, perché anche lui convinto che la donna è una creatura inferiore, incosciente, irresponsabile, una specie di graziosa bestiolina unicamente nata per servire e sollazzare il suo padrone”. 4

Mancuso non aderisce mai ad alcun partito politico, eppure il suo atteggiamento intellettualmente pragmatico diventa apertamente politico allorché riesce a smascherare le gabbie mentali di domesticità coatta in cui la cultura borghese ha relegato le donne siciliane.

Ripensare una cultura dell’affermazione femminile attraverso l’accesso all’istruzione resta un punto fondamentale del pensiero di Mancuso, che nello stesso pamphlet assegna proprio alla scuola il compito vitale di rendere le bambine consce e autonome rispetto ai paradigmi che le vorrebbero destinate all’ignoranza e all’isolamento culturale. Soprattutto, la sua critica sferzante nei confronti della scuola primaria italiana coeva, dove “le fanciulle agiate (…) ricevono un’ampia, superficiale indoratura di tutte le discipline immaginabili, escluse le più necessarie” (p. 4), consente paragoni con le idee del precoce femminismo italiano di Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff, particolarmente dedite ai temi sociali. Rimasta una voce isolata del proprio tempo, la scrittrice siciliana può essere inserita a pieno titolo nel dibattito ideologico sviluppatosi intorno alla soggettività femminile nel periodo successivo all’unificazione italiana.

Note


1 Salvatore S. Nigro, Una volpicina fra i villani in E. Mancuso, Vecchia storia, Palermo, Sellerio, 1990, p. 167.
2 Luigi Capuana, Letteratura femminile, Catania, CUECM, 1988, p. 66.
3 Elvira Mancuso, Vecchia storia, p. 25.
4 Elvira Mancuso, Sulla condizione della donna borghese in Sicilia: appunti e riflessioni, Caltanissetta, Tip. Dell’Omnibus–Fratelli Arnone, 1907, p. 1.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Elvira Mancuso

Donatella La Monaca, Il marchese e la maestrina: Luigi Capuana e altri studi, Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 2003

Elvira Mancuso, Vecchia storia…inverosimile, Palermo, Sellerio, 1990

Elise Magistro, “English translation of ‘Sulla condizione della donna borghese in Sicilia’ by Elvira Mancuso (1867-1958)”, in Journal of Italian Translation, a cura di Luigi Bonaffini, Vol. VIII, N° 2 (2013), pp. 78-95

Letizia Maria Mineo, Narratrici siciliane del ‘900, Palermo, Ila Palma, 1998

Rita Verdirame, Polemiche e “bagatelle”, Catania, CUECM, 2006

Referenze iconografiche: Elvira Mancuso. Fonte Editorial Periferica. Immagine in pubblico dominio.

Voce pubblicata nel: 2016

Ultimo aggiornamento: 2023