Il Risorgimento mantovano non è un microcosmo, una sorta di modellino in piccolo di quello nazionale, ma un vero e proprio terreno di lavoro, di pratica della libertà, di amore dell’indipendenza e dell’autodeterminazione, in una situazione del tutto particolare: Mantova è una delle fortezze del quadrilatero, vicina a Verona, sede del feldtmaresciallo Radetzky, ottantaseienne governatore del Lombardo-Veneto fermissimo ancora nel suo ruolo, al tempo della congiura che va sotto il nome di Belfiore.

Al processo di Mantova gli imputati sono centosessanta e, tra questi, ottantuno sono mantovani, quarantacinque veneti, ventotto di altre città della Lombardia, tre provenienti da altre parti d’Italia e tre sono soldati ungheresi.

Mantova ha una sua peculiarità nell’aspirazione all’indipendenza: il movimento libertario era estesissimo e coinvolgeva la borghesia agraria, l’ambito della nobiltà cittadina e delle carriere professionali (avvocati, ingegneri, medici), e il clero, aperto alle nuove istanze, formato sulla pratica del contatto con la gente, sull’educazione dei giovani e delle giovani, e sul pragmatismo piuttosto che sul dogmatismo.

Don Enrico Tazzoli, la figura di maggior spicco della congiura, al comandante della fortezza di Mantova, barone Culoz, che gli aveva chiesto come mai fosse avvenuto che “tanti preti lombardi a differenza de’ veneti s’immischiassero nelle faccende politiche”, osservava che a distinguere il clero lombardo da quello veneto era essenzialmente l’idea di una religione non soffocata dal dogmatismo, ma imperniata su verità “persuadenti” per la loro intima ragionevolezza e purificata da pregiudizi e superstizioni, impegnata infine a contribuire attraverso le opere al progresso degli uomini. Grazie a tutto ciò il clero si era “guadagnata la stima e l’amore del popolo” e di esso poteva dire di conoscere i “bisogni e i gemiti”.

In questo clima culturale e sociale, la sera del 2 novembre 1850 nella casa, ancora visibile in via Chiassi a Mantova, del nobile Livio Benintendi esule in Piemonte, ospitati dal suo amministratore Attilio Mori, si riuniscono un ventina di patrioti: don Tazzoli, Vincenzo Giacometti, Carlo Poma, Giuseppe Quintavalle, Achille Sacchi, Giuseppe Borchetta, lo stesso Attilio Mori, l’avvocato Giovanni Rossetti, il farmacista Dario Tassoni, gli studenti Luigi Castellazzo, Giovanni Acerbi, Giovanni Chiassi e Paride Suzzara Verdi, il prete don Giuseppe Pezza-Rossa e altri, alcuni dei quali in strada a controllare che non arrivassero guardie.

Ognuno se ne va dopo l’incontro con il compito di raccogliere adepti alla causa e molti aderiranno all’idea insurrezionale di Giuseppe Mazzini che, dall’esilio londinese, aveva lanciato un prestito nazionale per finanziarla e giungere a fare dell’Italia una repubblica democratica e unitaria.

Per registrare i nomi e le sottoscrizioni, don Tazzoli utilizza un cifrario che sarà poi scoperto dalla polizia asburgica, nell’ufficio specializzato in crittografia di Vienna, e darà la stura ai molti arresti.

A Mantova non passa un anno e la congiura viene scoperta. I centosessanta patrioti sono processati dal tribunale militare sotto l’accusa di alto tradimento; decine le condanne a morte.

Tra queste, insieme a Bernardo Canal, Angelo Scarsellini, don Enrico Tazzoli e Giovanni Zimbelli, quella di Carlo Poma.

Nelle donne del tempo della vicenda si sente profondamente, in tutta la Lombardia, lo sdegno per i processi sommari e le esecuzioni di Mantova. Margherita Trotti Bentivoglio così racconta:

quei poveri cinque infelici che furono eseguiti in Mantova, cose strazianti. Nessuno in Mantova, e meno in tutte le famiglie di quei miseri, sospettava che dovessero subire una sì atroce condanna, perché si sapeva che erano solo colpevoli di cose veniali. Ma non si sapeva che quei miseri erano già condannati a morte quando vennero arrestati e il processo consistette nell’applicare loro la tortura onde forzarli a confessarsi colpevoli di delitti non commessi. Quando si seppe in Mantova l’orribile sentenza, cinque signore delle primarie famiglie e fra quelle una principessa Gonzaga, si portarono a Verona presso Radetzky onde implorare grazia. Radetzky non volle nemmeno riceverle! Tutta Mantova si trovava radunata alla stazione della strada ferrata aspettando il ritorno di quelle pietose donne, certi che portavano lieta novella, invece esse dovettero dire a quella moltitudine che quella belva feroce non le aveva nemmeno ammesse alla sua tana!

È il 15 gennaio 1853: le impiccagioni sono state effettuate il 7 dicembre 1852, cinque settimane prima e tutta la Lombardia conosce e giudica. Margherita Trotti parla delle donne mantovane che compiono il tentativo di chiedere la grazia per Bernardo Canal, don Enrico Tazzoli, Angelo Scarsellini, Giovanni Zambelli e Carlo Poma, condannati a morte con sentenza pronunciata il 23 novembre 1852 e resa loro nota il 4 dicembre. Di queste donne evidentemente si parlava e i loro gesti divennero noti a molti che avevano a cuore il processo di indipendenza nazionale.

Carlotta Bonoris, il giorno dopo l’esecuzione, 8 dicembre, sfidando il divieto delle guardie austriache, si recò a posare fiori nella valletta Belfiore. Fu scoperta e arrestata.

Con la principessa Elisa Gonzaga si erano recate a Verona la contessa Giovanna d’Arco, le marchese Olimpia e Costanza Cavriani e la contessa Faustina Magnaguti. Avevano sperato di poter ottenere udienza da Radetzky, in virtù dell’alto lignaggio che portavano, ma il feldtmaresciallo le fece ricevere dal suo subalterno, generale Benedek, che le rimandò alla loro città.

Già prima di loro avevano tentato di far leva sulla pietà di Radetzky Eloisa Tazzoli e Anna Filippini Poma: si erano recate a Verona e lo avevano atteso all’uscita dalla chiesa in cui si recava ogni giorno per la messa. Il maresciallo le aveva fatte allontanare bruscamente.

Anna Filippini Poma si era già rivolta all’imperatore, con una supplica inviata il 18 agosto 1852, giorno del ventiduesimo compleanno di Francesco Giuseppe, per ottenere un trattamento più umano per il figlio carcerato, ma la risposta è secca:

N° 976 Auditorato

Dall’I.R. Comando di Fortezza

Decreto

La supplica indirizzata a Sua Maestà Imperiale dalla signora Filippini Anna, con la quale invocava le venisse ridonato libero il figlio dott. Carlo Poma o quanto meno venisse trattato in modo più compatibile alla sua malferma salute, venne respinta non essendosi degnata la prefatta M. S. di esaudire la domanda né di impartire provvidenze in proposito.

Il che si comunica alla supplicante per norma.

Mantova, 22 settembre 1852 Culoz

Ma Anna Filippini Poma tenta ancora una carta, la più audace. Vuole andare a Vienna, lei stessa di 67 anni, dall’Imperatore in persona. Prepara meticolosamente il tragitto.

Porta con sé una lettera diretta al colonnello Francesco Kolmann, comandante della guardia di Corte, firmata dalla sua stessa madre: “Franz, questa è la prima grazia che ti chiedo…”, ma Anna Poma non riesce a raggiungere Vienna. Viene fermata a Triste e rimpatriata a Mantova. Quando raggiunge la città, Carlo pende dalla forca con i quattro compagni di sventura.

Carlo era stato arrestato il 24 giugno, di notte, nella sua camera all’ospedale di Mantova che si trovava in corso Pradella e in cui lavorava come medico. Che fosse un tipo speciale lo si deduce da molte testimonianze: non solo bravissimo a scuola, come documenta la sua laurea in medicina, ma anche

agile e forte ingegno, che associava in egual culto le scienze e le lettere; aveva vasta e sicura conoscenza delle lingue classiche e di molte moderne, e quando fu arrestato stava cimentandosi con l’arabo…era tutto nervi, tutto brio. (A. Luzio, pag. 259)

Luzio riferisce di una descrizione che gliene fa l’avvocato Samuele Segrè, ancora in vita al momento in cui Alessandro Luzio si accinge a scrivere il suo libro più importante, I martiri di Belfiore.

L’espressione di quella figura era a noi giovinetti tra le più simpatiche della città. Nervosissimo, sempre e tutto s’agitava, camminava saltellando, ed è impossibile riprodurre quel suo sguardo profondo che gli occhiali da miope rendevano più acuto (Luzio, pag. 259-260)

Che fosse oltremodo simpatico è attestato persino dai sopravvissuti al carcere: si sveglia per primo e saluta i compagni di cella con motti diretti all’uno e all’altro. Proprio in carcere scrive un sonetto, dedicato alla sorella Carolina impaurita dagli scarafaggi, proprio sulla fine di uno scarafaggio. Era molto amato in famiglia e presso quanti lo conoscevano.

Anna Filippini Poma era a sua volta stimatissima a Mantova, non solo per essere stata la moglie di Leopoldo Poma, illustre consigliere del tribunale di Mantova, ma per la capacità, dopo essere rimasta vedova di seguire i propri figli, trasferendosi a Pavia per farli studiare all’Università e tornare poi nella città natale, quando anche Carlo aveva ottenuto la laurea in medicina summa cum laude. Era stata giovanissima sposa e presto vedova e aveva sposato in seconde nozze Leopoldo, vedovo con due figli ai quali si aggiungono i sei della loro unione. Carlo è quarto.

L’esperienza dell’arresto del figlio e della sua carcerazione fino alla sentenza di condanna a morte non la vedono accettare inerme la vicenda.

Tenta ogni via per ottenere clemenza, come abbiamo visto sopra, ma soprattutto intesse con il figlio, coadiuvata dagli altri figli e figlie, una trama intensa e ricca di rapporti di corrispondenza in cui si leggono non solo gli affetti prevedibili che legano una madre al figlio, ma una forza educativa fatta di intesa e di profondità di scambio

Mio Carlo tu non sai quali dolcezze tu mi hai fatto gustare, tu non sai quanto io sempre andassi orgogliosa di te: ed ora, mio Carlo, se soffro tanto non è colpa tua, ma de’ tempi: quante madri hanno lo stesso dolore senza avere alcun compenso! Credi tu che tutte le madri possano gloriarsi dei loro figli sebben detenuti per una nobile causa? Oh quanti smentiscono la loro missione, quanti la disonorano! Tu no, se anche cadessi vittima della calunnia o d’ingiuste supposizioni, sarebbe sempre una gloria né io dovrei mai arrossire quando venisse ricordato il tuo nome. E poi tutte le parole spiranti tanta tenerezza mi compensano largamente d’ogni dolore.

Come era possibile comunicare a questi livelli, intendersi, quando le regole carcerarie impedivano scambi di lettere o comunicazioni con la famiglia, quando l’unico momento di “contatto” con la famiglia era costituito dal prendere la biancheria sporca e consegnare quella pulita? (Anna vuole sapere dal figlio se gli consegnano la biancheria ben piegata e curata come lei vuole che sia per lui).

Proprio quei due momenti diventano il teatro di un’invenzione: Carlo scrive sui panni sporchi con aceto, finché ne può disporre, e poi con limone o urina intingendo in questi acidi un pezzetto di legno che ha staccato dall’intelaiatura della finestra della sua cella. A casa la madre e i fratelli, mettendo al calore le pezze, riusciranno a leggere i suoi messaggi: piccole richieste (lapis, occhiali di corno perché quelli di ferro gli sono stati sottratti, trascrizione di versi di Dante, come frammenti del Purgatorio, la Preghiera alla Vergine del trentatreesimo del Paradiso, poesie di Petrarca…), racconti sulla propria condizione, sonetti che si sforza di mandare a memoria e che frequentemente sfuggono dalla mente, scherzi…

Da casa invece vengono scritti bigliettini con calligrafia microscopica, su striscioline di carta gialla sottilissima, e vengono cuciti negli orli della biancheria, insieme a minuscoli lapis che si rompono spesso tanto sono piccoli.

Era sempre una gran trepidazione per le sorelle di Poma (Carolina, Teresa), per sua cognata Innocente, il recarsi con la fantesca Erminia alla Mainolda, e aspettare che il custode o i secondini avessero finita l’ispezione sommaria della biancheria vecchia e nuova. Come martellava forte il loro cuore, per tema che il fruscio della carta sotto la ruvida mano dell’aguzzino tradisse il geloso segreto, o che delle macchie sospette svelassero la criptografia di Carlo: e quali lacrime di riconoscenza versavano, quando uno dei secondini men burbero prometteva di consegnare al detenuto non la sola biancheria, ma anche dei fiori…in cui erano celati, nello stelo, dei lapis! (Luzio, pag. 361)

I fiori non erano importanti nella corrispondenza tra Carlo e la madre solo come mezzo di trasporto per i piccoli lapis destinati a comunicare, ma erano amati da entrambi.

Dice Carlo:

Dopo l’acqua di ieri mi immagino i miei fiori tutti belli

e la madre:

I tuoi fiori sono più che mai belli. Gigio ha trapiantato in vasi più grandi i leandri che tanto ami…

e non manca di parlare del giardino del “Recinto”, la casa di Villa Poma, che al tempo si chiamava Mulo, amatissima, in cui Anna passerà la gran parte del suo tempo dopo la morte del figlio a cui sopravvive undici anni.

Dunque c’è una tenerezza che si alimenta di passioni comuni, di un tessuto di esperienze e di amore che fa dire ad Anna:

non avvilirti quando sei solo. Tutt’altro che umiliante è il motivo per cui sei trattato tanto duramente. Questo pensiero deve esserti di conforto; sii sicuro di aver perso nulla, anzi di acquistare nell’opinione di chi sente altamente; e la fermezza tua nel sopportare tale disgrazia ti dà nuovi diritti alla stima di tutti. La tua famiglia per quanto ti amasse un tempo è un nulla al paragone di quanto ti ama adesso

Anna è fiera delle scelte politiche del figlio, le condivide, ma non può sopportare l’idea che la sua punizione debba essere così dolorosa: il carcere (Mainolda prima e poi al Castello, dove non potrà più comunicare perché il suo inganno della scrittura sui panni sudici viene denunciato al ligio e crudele commissario Casati da un compagno di prigionia) e l’incombere della pena di morte, in una confusa comprensione delle accuse che vengono rivolte al figlio, nella disconoscenza dello svolgersi degli interrogatori e del processo (costituti). È tutto un darsi da fare per fare sentire gli affetti, la vicinanza:

Sentisti la voce di Alessandro ieri sera? Egli diede forte la buonanotte ad uno che chiamò col nome di Carlo, ma il saluto era per te. Se l’hai udita quella voce ti scese al cuore, e quell’altro che a lui rispondeva era il tuo amico.

Giovedì dopo pranzo Carolina, Innocente e io ci porteremo nella casa dalle ante verdi abitata dal dottor Brazzabeni e pregheremo tanto che chissà che non decampi dalla sua idea di non voler nessuno mai alle sue finestre. Oh se almeno tu ci potessi vedere!

Non mancano i consigli saggi:

Mio Carlo! Per quanto ci ami, per quanto può il dolor nostro sopra il tuo cuore, moderati, quando rispondi negli esami. Non ti preghiamo d’esser vile, chè nessuno di noi vorrebbe, né tu il faresti, ma solo di usare parole e modi più miti. Continui arresti anche in altre province che vengono però tutti condotti qui.

Ma è la comunione con il figlio la nota che contraddistingue questa relazione e la capacità di questa donna di renderla così speciale.

Buon giorno, Carlo! Mi sveglio al fracasso che ti sveglia.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Anna Filippini Poma

A. Luzio, I martiri di Belfiore, ed. Cogliati, Milano, 1916

Cenni biografici e scritti vari di Anna Filippini Poma e del dottore Carlo Poma, Mantova, Tip. Segna, 1867

A. Poma, Visione. A conforto della madre, IMSC, 2016

Referenze iconografiche: immagine tratta dal volume I Martiri di Belfiore e il loro processo, di Alessandro Luzio, Milano, Cogliati, 1905, p. 345.

Voce pubblicata nel: 2022

Ultimo aggiornamento: 2023