«Ci sono di sicuro molte persone come me in Sudafrica nate sotto il segno della calamità e del disastro. Persone così rappresentano lo scheletro nell’armadio o il segreto oscuro e pauroso nascosto sotto il tappeto. Forse sono state le circostanze della mia nascita a rendere necessaria l’eliminazione di ogni traccia di storia familiare. Non ho nessun parente sulla faccia della terra, nessun albero genealogico di antica data a cui far riferimento, nessuna eredità. Non so cosa si provi ad aver ereditato un qualche aspetto del carattere o una certa instabilità emotiva o la forma delle unghie della mano da una nonna o da una bisnonna. Sono sempre stata io, solo io, senza nessun punto di riferimento oltre a me stessa... »

Bessie Head scrisse questo passo autobiografico nel 1982, quattro anni prima della sua morte prematura, all’età di quarantanove anni. «Sono sempre stata io, solo io, senza nessun punto di riferimento oltre a me stessa»: un’affermazione che contiene la cifra della sua diversità e della sua lontananza da tutte le altre scrittrici sudafricane. È la necessità, assoluta e disperata, a spingerla a esplorare il suo paesaggio interiore e a portare alla luce i tormentati sentimenti di esclusione e segregazione sociale che sembrano essere il suo destino. Disse di lei Charles Larson: «Bessie Head, praticamente da sola, ha portato a una svolta intimistica del romanzo sudafricano».

La particolarità della sua vicenda umana deriva dalla straordinarietà degli eventi che l’hanno segnata. È lei stessa a raccontarli all’interno della sua opera, inesorabilmente autobiografica, con brutale e imbarazzante crudezza, come se cercasse, attraverso la scrittura, di esorcizzarne il dolore, di stabilire una distanza:

«Sono nata il 6 giugno 1937, nell’Ospedale Psichiatrico di Pietermaritzburg, in Sudafrica. La ragione del mio strano luogo di nascita è che mia madre era bianca, e mi aveva concepito da un uomo nero. Fu giudicata malata di mente e affidata all’ospedale psichiatrico mentre era incinta. Il suo nome era Bessie Emery e considero l’unico onore che i funzionari sudafricani mi abbiano fatto quello di avermi dato il nome di questa donna sconosciuta, dolce e imprevedibile.»

 

Sudafricana, ‘coloured’, di madre bianca e padre nero. Figlia di un incontro proibito (è del 1949 la legge che vieta rapporti sessuali e matrimoni tra bianchi e neri, ma negli anni precedenti vigeva già un effettivo regime di apartheid): quello tra una bianca di origini europee e un nero di origini africane, tra la figlia del padrone e lo stalliere. Due mondi che Bessie Head racchiude all’interno di uno stesso corpo, di una stessa anima, in-scritti sulla sua pelle.

La piccola Bessie passò dunque il suo primo anno di vita in un ospedale psichiatrico, fino al suicidio della madre. Fu così affidata a una famiglia afrikaner, che di lì a pochi giorni rinunciò alla piccola, causa il colore della sua pelle, e poi a una famiglia meticcia molto povera. Fu questa che Bessie considerò la sua vera famiglia, fino a quando la madre adottiva fu costretta, in seguito a difficoltà economiche, a lasciarla in un orfanotrofio femminile gestito da missionari anglicani.

I problemi iniziarono con l’arrivo delle vacanze scolastiche. Fui chiamata nell’ufficio del preside, un missionario britannico, che mi disse, tagliando corto: “Non tornerai da quella donna. Lei non è tua madre”.

All’età di tredici anni, Bessie Head scoprì così la verità, e la scoprì in modo brutale, traumatico. E all’abbandono da parte della madre adottiva, a cui si sentiva profondamente legata, si sommò la consapevolezza, nuova, di essere stata rifiutata alla nascita a causa del colore della sua pelle.

Dopo il conseguimento del diploma di maestra elementare (1955), lavorò per un po’ come insegnante, quindi intraprese la carriera di giornalista prima a Johannesburg e poi a Città del Capo, collaborando con testate come «Drum», «Golden City Post» e «New African». Risalirebbe a questo periodo il primo esperimento letterario di Bessie Head, l’unico ambientato nel mondo sudafricano, pubblicato postumo nel 1993 e intitolato The Cardinals. Nel 1962 sposò Harold Head e l’anno dopo nacque Howard. Ma il matrimonio non durò a lungo. Nel 1964, per sfuggire alle forti tensioni politiche e sociali del paese, decise di lasciare il Sudafrica insieme a suo figlio, in mano un permesso di uscita – un viaggio di sola andata, che le precludeva ogni possibilità di rientro – che sanciva il suo esilio volontario in Botswana. Dopo un periodo trascorso nel campo profughi di Francistown, si stabilì a Serowe con lo status di rifugiato politico, che conservò fino al 1979, quando, ormai scrittrice affermata, le fu concessa la cittadinanza.

Il mondo in cui si muove Bessie Head è un territorio di confine. Un confine geografico, quello tra Sudafrica e Botswana; un confine politico, poiché Bessie vive negli anni a cavallo dell’indipendenza dall’Inghilterra; confine culturale, ovvero il passaggio da un mondo fatto di valori antichi, collettivi, condivisi, a un mondo dominato da denaro, benessere e potere, che divide quegli stessi uomini che un tempo erano uniti. La stessa Head è creatura di confine. Bianca e nera allo stesso tempo. Anzi, né bianca né nera. Né sudafricana né botswana. La sua è un’apolidia del cuore. Attraversare quei confini significò, per Bessie, perdere molte cose per riconquistarne una, fondamentale: la voce. Lontana dal Sudafrica e dalla sua dimensione repressiva, riuscì a superare quella sorta di ‘afasia letteraria’, che le impediva di scrivere. E attraverso la scrittura cercò la sua personale soluzione alla questione dell’identità razziale, trasformandola in un’identità terza, non etnica ma artistica.

Dall’esperienza del campo profughi di Francistown nacque When Rain Clouds Gather, romanzo pubblicato nel 1968 da Simon&Schuster a New York. Protagonista delle vicende è Makhaya, attivista sudafricano in fuga dal suo paese natale. Nel villaggio di Golema Mmidi in cui si è rifugiato spera di trovare finalmente una free land, un luogo dove gli uomini non conoscono barriere di nessun genere, un luogo in cui poter vivere in pace. La sua voce, il suo grido di libertà, si sovrappone alla voce di Bessie:

«Voglio soltanto camminare su terra libera. La gente non mi interessa. Non mi interessa niente, neanche i bianchi. Voglio sapere come ci si sente a vivere in un paese libero e forse allora alcuni dei mali della mia vita riusciranno a redimersi.»

 

In quello stesso anno iniziarono a manifestarsi i primi sintomi di un disagio mentale con cui Head dovrà combattere a lungo e che la porterà al ricovero in un ospedale psichiatrico di Gaborone. Ci metterà tre anni a venirne fuori.

Nel 1971 uscì in Inghilterra il suo secondo romanzo, Maru, una storia d’amore in cui l’elemento razziale è fortissimo. In Botswana Bessie Head scoprì che il razzismo non è solo quello perpetrato, con l’apartheid, dai bianchi sui neri. Nel suo nuovo paese, il tribalismo aveva innescato storicamente una discriminazione razzista fra neri. Le vittime, questa volta, sono i Masarwa, o Bushmen, antico popolo indigeno della regione, poi soggiogato e ghettizzato dalla tribù dei Bantu, da cui deriva il principale gruppo etnico del Botswana moderno, quello degli Tswana. Del pregiudizio razziale soffrì anche Head, ancora una volta per colpa della sua pelle, questa volta troppo chiara (meticcia). Fuggendo in Botswana, la scrittrice si era illusa di poter dimenticare il Sudafrica e il suo fardello di frustrazioni, soprusi, negazioni. Arrivata a Serowe, si accorgerà che non esiste fuga dal proprio passato e da se stessi. Che il razzismo non dipende dall’essere bianchi o neri, dall’appartenere a una tribù o a un’altra. Il razzismo è una dimensione latente che ogni uomo e ogni popolo covano in sé. Lo spaventoso e spaventato bisogno di generare un mostro in cui credere, un nemico su cui riversare tutte le proprie paure, le bassezze, le ossessioni, per necessità di sopravvivenza psichica. Che il mostro sia nero (apartheid) o Masarwa (tribalismo tswana) non fa nessuna differenza. Individuare il principio, la causa prima, del fenomeno razzista, capire cos’è il “Male”, richiede di stanare i tanti “mali”, singolarmente presi, che popolano gli abissi delle persone, i loro inferni individuali.

E a stanare i “mali” dell’animo umano è dedicato il suo terzo romanzo, il più autobiografico di tutti, A question of power (1974), che nel saggio Social and political pressures that shape writing in Southern Africa (1979), l’autrice definisce come il suo personale viaggio filosofico alle radici del male. Il romanzo, dalla scrittura difficile e criptica, spesso visionaria e schizofrenica, è un esperimento narrativo unico nel suo genere: Bessie riversa sul lettore un incandescente magma psichico costringendolo a percorrere, dal di dentro, il suo stesso cammino di follia e redenzione. È un inglese limpido, ricco, raffinato quello di Head. Insolitamente privo di connotazioni geografiche e sociali, libero – volontariamente – da ogni possibile marchio. Quasi fosse una lingua nuova – prodotto, auto-creatosi, violento e schizoide. La storia è ambientata nel villaggio di Motabeng (‘terra di sabbia’, la più adatta all’instabilità psichica), ai bordi del deserto del Kalahari, e vede come protagonista un singolare trio che condivide “uno strano viaggio all’inferno”: Sello, Dan ed Elizabeth, alter ego di Bessie. Elizabeth, come Bessie, è un’esule sudafricana in terra botswana. Ed è nata, come Bessie (e come l’Antoinette del Wide Sargasso Sea di Jean Rhys), sotto lo “stigma of insanity”. Soffre di quella che la gente considera una predisposizione genetica alla pazzia.

«Abbiamo un incartamento completo su di te. Devi stare molto attenta. Tua madre era pazza. Se non stai attenta, diventerai pazza proprio come tua madre.»

Contro il marchio infamante della follia, Bessie lottò per tutta la vita, attraverso la sua arte, attraverso la sua scrittura. Convinta che la sanità mentale sia una conquista quotidiana, senza fine, fatta di battaglie vinte e perse. La battaglia contro la follia è una battaglia sociale, oltre che un estenuante duello personale, psicologico, emotivo. Scrivere, per Bessie Head, significa opporsi al dominio della pazzia, cercare delle risposte e insieme delle soluzioni. La sua ricerca intende andare oltre le istanze di liberazione dall’oppressione dell’apartheid, oltre la rabbia dei ghetti e della miseria. Scrive, Bessie, per creare un mondo nuovo e più giusto, una vita nuova, nuove esistenze capaci di un futuro migliore, nuovi valori e nuove forze per una società finalmente libera dal “male”:

«Ciò di cui sono sicura è che la funzione principale di uno scrittore sia rendere magica la vita e riuscire a comunicare un senso di meraviglia. Ammetto di aver trovato la realtà sudafricana così negativa da non poterla gestire, in termini creativi. Il mio lavoro ha coperto l’intero spettro delle ossessioni, in Sudafrica: rifugiati, la questione della razza, il male e l’antico dialogo storico del Sudafrica.»

Negli ultimi anni della sua vita, Bessie Head trovò una nuova dimensione al suo lavoro. Indirizzò il suo sottile spirito d’osservazione alla vita quotidiana nei villaggi del Botswana, alle credenze animiste e alla superstizione della sua gente. A Serowe, il “villaggio del vento di pioggia”, dopo anni di solitudine ed emarginazione, riuscirà finalmente a trovare qualcosa di inedito e familiare al tempo stesso: braccia aperte pronte ad accoglierla, uno scorrere lento ed eterno di esistenze tranquille, modeste, silenziose.

Il mondo che Head ricostruisce nella raccolta di storie The Collector of Treasure (1977), nel racconto storico Serowe: Village of the Rain Wind (1981) e nel romanzo storico A Bewitched Crossroad (1984) è un mondo fatto di sentimenti piccoli, quotidiani, di microstorie individuali, di braccia, gambe, occhi, bocche, piedi di gente comune; gente che la vita spesso ha offeso, gente “ultima”: bambini, vecchi, e soprattutto donne. Il racconto, lo story-telling, è in Head prima di tutto suono, parola, incontro di sguardi e corpi tenuti insieme dalla voce di chi narra. La scuola è quella del racconto orale davanti al fuoco.

The Cardinals, l’antologia di racconti Tales of Tenderness and Power (1989), la raccolta di appunti e scritti autobiografici A Woman Alone: Autobiographical Writings (1990) e la selezione di lettere che Head scrisse all’amico Radolph Vigne A Gesture of Belonging: Letters from Bessie Head, 1965-1979 (1991).

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Bessie Head

Bessie Head in E. Benson e L. W. Connolly, Encyclopedia of post-colonial literatures in English, vol. 1, London-New York, Routledge, 1994

C. Abraham, The Tragic Life. Bessie Head and Literature in South Africa, Trenton, Africa World Press, 1990

Mackenzie C. e Clayton C., Between the Lines: Interviews with Bessie Head, Grahamstown, National English Literary Museum, 1989

Sito ufficiale

Sito dedicato a When Rain Clouds Gather

Opere di Bessie Head edite in Italia

Una questione di potere, traduzione di Paola Fattori, Roma, Edizioni Lavoro 1994

La donna dei tesori, traduzione di Maria Antonietta Saracino, Roma, Edizioni Lavoro 2003

Arance e limoni, in Il vestito di velluto rosso. Racconti di donne sudafricane, traduzione di Maria Paola Guarducci, Iesa, Gorée 2006

Referenze iconografiche: Bessie Head. Fonte: Khama III Memorial Museum Archive. Immagine in fair use.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023