Elisabetta Sirani nacque, visse e lavorò nella Bologna post-tridentina, dove morì all’età di ventisette anni. Non per avvelenamento, come suggeriva la leggenda che circolò per anni, ma per un attacco di peritonite seguita alla rottura di un’ulcera peptica. Elisabetta era la figlia più famosa dell’affermato artista e mercante d’arte bolognese Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), primo assistente di Guido Reni, e divenne negli anni pittrice professionista e acquafortista: a soli ventiquattro anni era già a capo della sua bottega, proprio negli stessi anni in cui il padre smise di dipingere a causa della gotta. Diventò poi Professoressa all’Accademia d’arte di San Luca a Roma, e la prima artista donna in Europa a fondare una scuola femminile di pittura, l’Accademia del Disegno.

Elisabetta diventò l’artista donna più celebrata e quotata di Bologna e le sue opere vennero esposte nelle maggiori collezioni europee già durante la sua breve vita. Divenne famosa per il suo stile alto barocco “ultramoderno” e ammirata per il virtuosismo tecnico e artistico: sviluppava sulle sue tele erudite uno stile pittorico espressivo e veloce, con pennellate ampie e un impasto fluido (secondo le modalità suggerite dalla “sprezzatura”) abbinato a un intenso e raffinato senso del colore e del chiaroscuro. Si può considerare una “Virtuosa del pennello”. Al raggiungimento della maturità artistica, tra il 1662 e il 1664, Elisabetta era già diventata una delle artiste più significative di Bologna: i suoi lavori godevano di ottima considerazione nei circoli di mercanti, professionisti e intellettuali, oltre che tra le élite aristocratiche, politiche ed ecclesiastiche della città. Veniva celebrata anche da regnanti e diplomatici d’Italia e d’Europa, che cercavano ansiosamente di possedere una delle opere di questa meravigliosa giovane. Durante il suo funerale civile Giovanni Luigi Picinardi la esaltò come «la gloria del sesso Donnesco, la Gemma d’Italia e il Sole della Europa», e il suo mentore e biografo, il critico d’arte Conte Carlo Cesare Malvasia, che l’aveva incoraggiata e aiutata ad avviare la sua carriera, ritrasse l’artista come l’eroina culturale di Bologna: la “Pittrice Eroina” della sua “Felsina”.

La vasta rete dei mecenati di Elisabetta, sviluppata negli anni della formazione, delle mostre e delle strategie promozionali e sostenuta dalla gestione imprenditoriale del padre e degli agenti che rappresentavano le famiglie senatorie bolognesi, le garantì il successo professionale e sociale in una società che già incoraggiava attivamente il coinvolgimento delle donne nella vita pubblica e religiosa e valorizzava la creatività, l’istruzione e le conquiste intellettuali femminili. In questo contesto Elisabetta diede un contributo decisivo allo sviluppo della Scuola Bolognese di pittura alla metà del Seicento, anche se la sua carriera professionale abbracciò solo il decennio 1655-1665. Divenne una figura di passaggio fondamentale, insieme a Lorenzo Pasinelli e Carlo Cignani, nel trasmettere alle successive generazioni di artisti, come Giovan Gioseffe dal Sole e Donato Creti, l’elegante classicismo barocco di Guido Reni, figura dominante nella prima metà del secolo. Elisabetta era inoltre una delle artiste più erudite, brillanti e prolifiche del Seicento Bolognese, e ottenne molti lavori su commissione (scene a carattere storico - istoria - alcune pale d’altare, per esempio l’enorme Battesimo di Cristo della Certosa), il plauso della critica e una posizione di tutto rispetto in un mestiere ritenuto prerogativa maschile. Estremamente produttiva e dotata di una straordinaria velocità di esecuzione, famosa per la sua capacità di terminare il ritratto di un busto in una sola seduta, Elisabetta dipinse quasi 200 tele (tutte documentate dall’artista nel diario di lavoro Nota delle pitture fatto da me Elisabetta Sirani, pubblicato poi da Malvasia), 15 stampe e innumerevoli disegni e schizzi acquerellati. Elisabetta divenne rapidamente - lo confermano i dati d’archivio - uno degli artisti bolognesi più ricercati e collezionati del diciassettesimo e diciottesimo secolo, e oggi le sue opere sono esposte nelle maggiori collezioni pubbliche e private d’Europa, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Il successo e l’apprezzamento della critica ottenuti in vita e la successiva fortuna affermarono senza dubbi la sua posizione di rilievo nella storia dell’arte, e il suo contributo nella rielaborazione delle tradizioni artistiche radicate. Il ruolo innovativo che ricoprì è riscontrabile soprattutto nella creazione per committenti privati di soggetti nuovi e insoliti, caratterizzati da una forza iconografica e narrativa unica nella rappresentazione della femme fortes, l’eroina femminile, biblica, classica, mitologica o letteraria (Giuditta, Dalila, Porzia, Timoclea, Cleopatra, Circe, Iole). In queste tele (“quadri da stanza” o “gruppi di famiglia”), per le quali si preparò studiando antichi testi e manuali e osservando le risorse iconografiche conservate nella biblioteca e nella collezione d’arte del padre, Elisabetta dipingeva le sue eroine come figure indipendenti, attive, intelligenti, coraggiose e nobilitate, cioè dotate di valori generalmente associati alla sfera maschile. Inoltre la figura stessa di Elisabetta rappresentava un nuovo modello di “femminilità”: donna virile, nella pratica artistica e nella posizione professionale così come nelle originali rappresentazioni di queste femmes fortes attraverso una personalissima esecuzione pittorica, che i contemporanei classificarono come “mascolina”. Malvasia affermò che Elisabetta dipingeva “più che da uomo” e che “ebbe del virile e del grande”. Fu inoltre una delle prime artiste ad essere pubblicamente riconosciuta dai colleghi e dai critici come un “virtuoso” al femminile, dotata di genio artistico e inventiva (caratteristiche normalmente considerate inutili per una donna!).

Divenne famosa anche per la creazione di ritratti sociali allegorici (la Contessa Anna Maria Ranuzzi ritratta come la Carità, Vincenzo Ferdinando Ranuzzi come Cupido, Ortensia Leoni Cordini come Santa Dorotea), e per alcune fra le Madonne più belle di quel periodo (secondo il Malvasia), chiamate “quadretti da letto”: dipinti per uso devozionale privato, nei quali il materno domina nelle interazioni intime e affettive tra madre e figlio, attraverso scambi di sguardi e delicati gesti delle mani (Madonna della Rosa, Madonna del Cuscino). Con la maturazione dello stile questi dipinti divennero più naturalistici e realistici, meno dipendenti dai modelli idealizzati di Guido Reni, che aveva influenzato i primi anni della sua carriera - tanto che all’inizio era opinione diffusa che Elisabetta Sirani fosse la reincarnazione artistica del genio di Reni. Eppure la giovane riuscì a sviluppare uno stile proprio, intimo e indipendente, a «far maniera da sé» come disse il Malvasia, basato sul rapporto emotivo e affettivo tra l’artista e il suo soggetto.

Elisabetta fu una dei pochi artisti bolognesi a firmare i propri lavori, in un’epoca nella quale tra l’altro le firme delle donne non avevano valenza legale, e sviluppò anche modi creativi di affermare la sua identità artistica e sociale “ricamando” il nome su bottoni, polsini, scollature e cuscini con passamaneria o gale, oppure incidendolo negli elementi architettonici delle tele, spesso in relazione diretta al contenuto e significato dell’opera.

Elisabetta non si sposò mai, rimase un’artista lavoratrice nubile e per questo divenne una figura particolarmente importante per la professionalizzazione della pratica artistica femminile in Italia all’inizio della storia moderna. Aveva un buon numero di apprendiste, così come di assistenti uomini, e fondò la prima accademia professionale d’arte per giovani donne, frequentata anche dalle due sorelle minori, Barbara e Anna Maria: una volta finiti gli studi, tutte le studentesse proseguivano la pratica artistica (pittura o produzione di stampe) a livello professionale. Fu merito dunque dei suoi sforzi pionieristici e della accademia femminile da lei voluta se la seconda metà del Seicento bolognese divenne uno dei periodi più fertili della storia dell’arte femminile.

L’importanza della sua presenza nella produzione culturale nella Bologna moderna risiede nella creazione di strade alternative per l’educazione delle donne, anche attraverso l’apertura del suo studio alle giovani (provenienti non solo da famiglie di artisti, ma anche da famiglie nobili) che volevano intraprendere una carriera nelle arti figurative. L’addestramento di Elisabetta con il padre e la formazione umanista, insieme al suo ruolo di donna che insegnava l’arte ad altre donne, mettevano in discussione le consuetudini di bottega e i principi teorici dell’educazione artistica dei colleghi maschi. In quanto artista professionista, in quanto maestra, insegnante e donna, Elisabetta offrì un’alternativa radicale al modello consueto del mentore uomo (uomo a uomo/uomo a donna), dando vita a una trasmissione matrilineare, mediata dal femminile, dell’educazione artistica, della conoscenza e della cultura. Bologna in particolare dimostrò di essere un buon terreno per questi sviluppi, con la sua tradizione umanista di donne docenti all’università (a partire da Bettisia Gozzadini e Novella D'Andrea), pittrici (Caterina Vigri, Antonia Pinelli, Lavinia Fontana) e scultrici (Properzia de’ Rossi). Elisabetta è l’epitome di questa ricca storia culturale, l’“exemplum” della femme savant, l’artista donna, di professione e di successo, nel nord Italia. La sua pratica artistica diventa paradigma della produzione culturale femminile di questo periodo e il suo lavoro lascia un’impronta profonda sullo sviluppo della pittura bolognese della seconda metà del Seicento.

(La voce è stata tradotta da Claudia Rabolli).

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Elisabetta Sirani

Referenze iconografiche: Elisabetta Sirani, Autoritratto, 1650 circa.  Fonte: California State Polytechnic University, Pomona.  Immagine in pubblico dominio.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023