Chi legga La casa sulla Marteniga, l’autobiografia di Clementina (Tina) Merlin, pubblicata postuma nel 1993 e si addentri nella piccola proprietà di Santa Tecla «a metà di una larga vallata nel mezzo di un anfiteatro di colline e montagne»[1] sa che quel mondo è cambiato. La guerra ha portato miseria e lutti, orrori per una bambina, più tardi adolescente, difficilmente dimenticabili. Nata a Trichiana, provincia di Belluno, nel 1926, da Cesare, muratore ed emigrante, e Rosa Dal Magro, contadina, Tina Merlin è la più giovane di otto fratelli. È una bambina sveglia e nel pomeriggio oltre che andare a servizio a casa delle famiglie benestanti del paese, svolge alcuni lavori nei campi. «Per “lavorare” s’intendeva tutto ciò che non riguardava l’interno della casa: il bucato, le pulizie, i pasti. Queste erano occupazioni normali per le donne, “Lavorare” era il resto: pascolare la mucca, barellare il letame dalla concimaia al campo, rastrellare il fieno, zappare, vendemmiare e pestare con i piedi nudi l’uva nei tini»[2]. Ha soltanto dodici anni quando si trasferisce a Milano con la sorella Ida, che già conosce quella realtà, per lavorare come domestica e bambinaia. «Da piccola ho molto desiderato essere un maschio per venire maggiormente considerata dai miei genitori e dalla gente. Rimuginavo spesso tra me, su queste differenze che ci attribuivano costringendoci a farci sentire, noi ragazze, inferiori ai fratelli»[3]. Non ci sono soltanto le ingiustizie e le umiliazioni da parte dei padroni, a Milano cominciano i bombardamenti. E le morti non sono solo tra i soldati. Così Tina fa ritorno a casa. Quando nell’autunno del 1943 le truppe tedesche occuparono la provincia, Tina Merlin aveva diciassette anni. Le ragioni che la portarono a entrare nella Resistenza furono diverse: l’istintiva coscienza di classe, ad esempio, e, naturalmente, una serie di richiami a principi cristiani con cui è cresciuta come l’aspirazione alla pace, al lavoro, alla giustizia e a una maggiore dignità nello Stato. Nel luglio del 1944 segue l’esempio del fratello Toni, che dopo l’8 settembre organizza la resistenza insieme ad altri giovani del paese. Come l’amica Wilma, Tina Merlin è staffetta partigiana nella brigata 7° Alpini e consumerà la propria bicicletta girando da un avamposto all’altro. È subito dopo la guerra di liberazione che Tina (chiamata Joe nella clandestinità) scopre l’amore con il compagno partigiano Aldo Sirena (Nerone) che sposa nel 1949 e dal quale avrà un figlio, Toni, nel 1951. Negli stessi anni comincia l’attività giornalistica, a dispetto della madre, dopo aver vinto il secondo premio ad un concorso indetto da «l’Unità». Tanto ama scrivere che esordisce nel 1957 anche come scrittrice traducendo l’esperienza resistenziale in Menica. Negli anni ’60 la sua penna giornalistica si lega indissolubilmente alla tragedia del Vajont. Per i suoi articoli di denuncia della situazione pericolosa connessa all’avanzare dei lavori di costruzione della diga già nel 1959 viene processata e poi assolta dal Tribunale di Milano per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico». La firma giornalistica di Tina Merlin fa il giro del mondo. Tenta di impedire il consumarsi della tragedia, come può e sa, ma lo sforzo è vano. Il suo libro Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, pubblicato finalmente nel 1983 dopo aver cercato per anni un editore interessato, ricostruisce l’intera vicenda. Dal 1964 al 1970 (con un anno d’interruzione) è eletta consigliere provinciale per il Pci. L’attività politica era cominciata subito dopo la fine della guerra quando, iscritta al locale Pci, cominciò la propaganda tra le ragazze. Fin da giovane sostenitrice della parità tra uomo e donna, Tina Merlin presta la propria attività anche attorno al gruppo UDI. «Il mondo che sognavo da bambina, quand’ero a servire, mi s’è aperto, esiste, io esisto col mondo». Dopo una breve esperienza nel 1967 in Ungheria, a Radio Budapest in lingua italiana, la giornalista riprende la collaborazione con l’«Unità» da Vicenza. Nel ’71 si trasferisce alla redazione di Milano e, da qui, nel 1974 a Venezia fino al 1982 dove dirige le pagine regionali del Veneto. Durante l’attività giornalistica collabora a varie riviste, tra cui «Patria Indipendente», «Vie Nuove» e «Protagonisti», la rivista dell’Istituto Storico Bellunese della Resistenza, del quale è stata socia fondatrice nel 1965 e per lungo tempo membro del direttivo. Nel 1992, poco dopo la sua scomparsa, è stata fondata l’associazione culturale che ne porta il nome e che vuole continuare la ricerca e l’impegno di Tina Merlin sui temi dei diritti civili, della giustizia sociale e della condizione femminile. Nel 2004 è stata pubblicata una raccolta di articoli giornalistici dal titolo La rabbia e la speranza.

NOTE

1. T. Merlin, La casa sulla Marteniga, 2 rist., Sommacampagna (VR), Cierre Edizioni, 2008, p. 9.

2. T. Merlin, op. cit. , p. 54.

3. T. Merlin, op. cit. , p. 54.

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Fonti, risorse bibliografiche, siti su Tina Merlin

T. Sirena (a cura di), La rabbia e la speranza. La montagna, l’emigrazione e il Vajont, Sommacampagna (VR), Cierre Edizioni 2004

M. T. Sega (a cura di), Tina Merlin: partigiana, giornalista, scrittrice, Portogruaro, Nuova Dimensione 2005

Sito dell’associazione culturale Tina Merlin

Referenze iconografiche: Tina Merlin. Immagine in pubblico dominio.

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023