Per i familiari e gli amici era “la Pina”. Sulle scene, diventava Anna Carena. Uno pseudonimo scelto di notte, insieme alla sorella Teresita, pensando alla soubrette Amelia Carena, personaggio di una commedia di Guglielmo Zorzi, La vena d’oro (1919), in cui aveva recitato e da cui nel 1929 sarebbe stato tratto un film; il nome Anna, al posto di Amelia, rimanda invece alla tragica eroina tolstojana, la Karenina, emarginata dalla società borghese e conformista della Pietroburgo ottocentesca per essersi ribellata a un matrimonio asfissiante lasciandosi travolgere da una fatale, adultera passione.

A inizio carriera, e cioè nel primi anni Venti del Novecento, ad ogni modo, “la Pina” si presenta al pubblico con la sua vera identità anagrafica, Giuseppa Galimberti, cognome meneghino che già di per sé ne rivela le origini di milanese pura, destinata a rimanere sempre molto legata alla città natía, tanto da farne quasi una ragione di vita. Una lunga vita, dal 1899 al 1988, in buona parte dedicata al palcoscenico, poi al cinema, in collaborazione con alcuni fra i più grandi attori e registi italiani. Senza contare alcune esperienze in radio nell’EIAR – (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), la società anonima che sotto il fascismo aveva il monopolio delle trasmissioni – e più tardi in televisione per la RAI.

Esile, minuta, aveva due occhi neri, arguti, che esprimevano dolcezza ma nello stesso tempo tutta la determinazione che l’aveva spinta, non potendo abbracciare a pieno titolo il mestiere di attrice per le contrarietà della famiglia, a dedicarsi al teatro dialettale milanese, cosa che le permetteva di lavorare senza allontanarsi troppo da casa. Vi si impegnò con tanta passione da diventare una delle artefici della fortuna di tale genere di spettacolo, come le avrebbe riconosciuto Carletto Colombo, direttore di quella specie di “Scala in miniatura” che era, e ancora è, il Gerolamo, con i suoi due ordini di palchi, un loggione e una platea. Il Gerolamo, costruito nel 1868 per essere la sede stabile delle marionette, aveva dato spazio fin dalla sua nascita anche al teatro in vernacolo ambrosiano.

Negli anni Venti del secolo scorso i tanti teatri del capoluogo lombardo avevano ciascuno un proprio preciso carattere: oltre al Gerolamo e al Nuovo, anche il Lirico, il Manzoni, l’Olympia, il Diana, il Puccini...senza dimenticare, naturalmente, il Filodrammatici, dove la giovane “Pina” – erano i tempi in cui in commissione c’era la Duse – si diploma. Nel 1923, quando è ancora “la Galimberti”, recita al Teatro del Popolo con Ruggero Lupi, attivo fin dall’epoca del cinema muto, e si distingue per la sua voce inimitabile. “Dice con gusto e con garbo”, scrive di lei un cronista dell’epoca.
Il Teatro del Popolo della Società Umanitaria aveva individuato nell’istruzione, nella formazione professionale, nell’acculturazione di massa lo strumento privilegiato per il riscatto delle classi popolari. Non più, dunque, una sala destinata alla celebrazione mondana della borghesia, bensì uno strumento per la diffusione della cultura teatrale e musicale fra i lavoratori.
Seguono altre esperienze, come quella con la compagnia di Annibale Betrone, figura celebre del teatro italiano nella prima metà del Novecento, e a fianco di Alberto Giovannini nella compagnia di Virgilio Talli.

Dal 1925 lavora insieme al regista Luigi Chiarini e all’attore Uberto Palmarini, nomi allora molto noti al pubblico, ma anche, come prima attrice, nella Schirato Galimberti-Garavaglia. Quindi, nel 1932, recita con Giovanni Barrella, figura eclettica della cultura milanese che aveva messo su una sua compagnia riscuotendo un notevole successo con El nost Milan di Carlo Bertolazzi. Nel 1933, a proprie spese, fonda lei stessa, imprenditrice culturale ante litteram, un gruppo di prosa lombarda, la Compagnia milanese Anna Carena. Fra le altre cose, nel marzo del 1934 porta in scena, in quel “casermone di periferia” che era il teatro il Principe, Marco Visconti, duca di Milano di Carlo Porta e Tommaso Grossi; un mese dopo, eccola di nuovo davanti al pubblico, questa volta nella versione milanese de La vedova, famosa commedia di Renato Simoni. Da capocomica osa poi allestire, nel 1935, quando Alberto Carlo Felice Pisani Dossi, in arte Carlo Dossi, è considerato uno stravagante aristocratico, Ona famiglia de Cilapponi, piccolo, grottesco gioiello inedito, uno dei pochi lavori per il teatro scritto direttamente dall’autore in milanese. Il suo coraggio, il suo impegno, vengono premiati e riesce a imporsi anche in sale più centrali.

Ma recitare non le basta, diventa autrice di alcuni copioni quali Tre colpi di rivoltella, Le sorelle, Isaia di Milano, riduzione dialettale, quest’ultimo, di un dramma di Andrea Vallardi.
Nel 1936 la mannaia del regime mette fine, drasticamente, alla splendida avventura. Il governo fascista non vede di buon occhio il dialetto, lo considera una minaccia per l’unità nazionale, a lei non resta che sciogliere la compagnia. È un dolore grande. Smette di recitare, cambia vita. Sarà l’incontro con il grande schermo a riportarla, pur con discrezione, alla ribalta, mentre durante la guerra riprende i contatti con un suo amore di gioventù, l’endocrinologo milanese Alcide Fraschini, che diventerà sua marito.

Lunghissimo l’elenco dei film a cui collabora, a cominciare da Piccolo mondo antico di Mario Soldati, nel 1941, in cui interpreta Carlotta, la cameriera della marchesa, primo di una serie di ruoli da caratterista: è la maestra sulla corriera in Quattro passi fra le nuvole di Blasetti (1942), la piccola borghese Argìa ne Il mulino del Po di Lattuada (1948), Marta, la donna altezzosa in Miracolo a Milano (De Sica, 1951). Sempre al 1951 risale la sua apparizione nel film Totò e i re di Roma per la regia di Steno e Mario Monicelli. E poi ancora, negli anni a seguire, sarà la contessa Gerza in Café Chantant (Mastrocinque, 1954) e la madre in Rocco e i suoi fratelli di Visconti, (1960), per non citare che alcuni titoli.

Con Visconti, nel 1967 lavora anche in teatro ne La monaca di Monza di Giovanni Testori, interpretando la parte di Francesca Imbersaga, priora del monastero di Santa Margherita al tempo dell’inizio della relazione di suor Virginia, la Gertrude de I promessi sposi, con Gio Paolo Osio, l’aristocratico e balordo Egidio manzoniano. Accanto a lei, Lilla Brignone, Sergio Fantoni, Valentina Fortunato, Mariangela Melato: come dire il gotha dello spettacolo nell’Italia del periodo. Dopo anni di assenza dalle scene, ormai quasi dimenticata, nel 1981 viene chiamata da Giorgio Strehler al Piccolo Teatro per fare la moglie del mercante di stoffe in L’anima buona di Sezuan. Una piccola parte, ma per lei non ci sono piccole parti, se mai piccole attrici.
Nel 1986 è ancora Francesca Imbersaga nella messa in scena de La Monaca di Monza, atti del processo a suor Virginia Maria De Leyva, per la regia di Fabio Battistini al Manzoni di Monza. Entra nel personaggio con la stessa, rigorosa dolcezza di 19 anni prima. La sua voce lenta, carezzevole, senza pause se non quelle dei sospiri, è un’accusa e al tempo stesso un’assoluzione della protagonista, la “sventurata” che aveva “risposto” alle lusinghe del seduttore, cedendo alla tentazione e al peccato. Un dramma di cui l’attrice riesce a cogliere tutto l’aspetto umano.

È così che “la ragazza del ‘99” – che aveva vissuto i tempi del teatro vagabondo e glorioso, con i guitti, i mattatori, le primedonne e le sciantose – arriva a fine carriera, la chioma ormai argentea ma gli stessi occhi vivi e neri di sempre. “Piccola e preziosa come una statuetta di Lenci”, scrive di lei Alfredo Barberis, giornalista del “Corriere”, dopo averla vista in occasione di una sua pubblica apparizione degli ultimi anni. Preziosa, sì, per la lunga “militanza” in teatro. E fragile in apparenza, ma altrettanto intrepida nella scommessa in cui si era lanciata, tanto da diventare una protagonista, tra le ultime, delle scene vernacole, cioè di una commedia, quella milanese, di cui oggi rimangono sbiadite fotocopie e vecchie dagherrotipie. Il che le aveva valso, tra le altre cose, il premio Carlo Porta nel 1973.

Il suo album di ricordi era un seguito fittissimo di incontri e di indimenticabili emozioni: dal saggio di fine accademia sotto gli occhi di Eleonora Duse, “la divina”, avvolta da tantissimi veli e con un gran cappello in testa, all’amicizia con la compagna di corso Marta Abba; dall’ammirazione per colleghe come Elsa Merlini, Paola Borboni, Anna Pavlova, Evi Maltagliati, ai complimenti di Vittorio De Sica per il suo ruolo in “Miracolo a Milano”. E non dimentichiamo la considerazione in cui la teneva l’inimitabile “Eduardo”, come anche Giorgio Strehler: si dice che Anna Carena fosse l’unica attrice a cui il “mostro sacro” dava del “lei”. Un solo rimpianto, non per sé ma per un grande attore, Tino Scotti, altro milanese “doc” che lei aveva lanciato, ma che, a suo dire, avrebbe meritato molto di più.

Nel 2023 il Comune di Milano le ha intitolato nel quartiere Lambrate il giardino di via Golgi, all’altezza del civico 36, proprio là dove venne allestito il set della baraccopoli di Miracolo a Milano: un omaggio dovuto alla “Pina”, voce “storica” dell’anima popolare, quella più vera e antica, del capoluogo lombardo. E per tutte le donne una bella notizia, che va un pochino a colmare il grande vuoto di memoria a cui sembrano condannate, da sempre, le figure femminili negli spazi pubblici e nella toponomastica delle nostre città.


Voce pubblicata nel: 2025