…ora sto vivendo una vita bella e sicura. Ma spesso non sento niente di buono dentro di me, penso sempre alla mia famiglia e ai miei amici a Gaza. A volte, quando inizio a mangiare o a bere, ricordo come eravamo tutti affamati e malati perché bevevamo acqua sporca, come arrancavamo nel buio. E dopo non posso né mangiare né bere. Gaza è un cumulo di macerie, sarebbe impossibile tornarci anche se potessimo farlo.
Difficile per una palestinese definire stabilmente i luoghi della sua vita, con intere generazioni costrette continuamente a lasciare le proprie terre a causa dell’occupazione israeliana. Le donne palestinesi, del resto, sono un bersaglio chiave per Israele fin dalla Nakba (tragedia) del 1948: uccise, stuprate, senza accesso a cure mediche adeguate, denutrite, vedono i propri figli e figlie morire sotto le bombe, nelle camere di tortura o negli ospedali. La famiglia di Bayan Abu Nahla proviene da Yibna, che dall’esodo forzato del 1948 è diventata una città fantasma.
Da bambina l’artista viveva a Rafah, dove conobbe una quotidianità fatta di segregazione e difficili approvvigionamenti; qui fu travolta ulteriormente dalle guerre del 2008 e del 2014. Nel 2021 la famiglia si trovava a Gaza e dovette abbandonare il proprio appartamento, che fu distrutto dai bombardamenti a tappeto israeliani. In seguito Bayan è sfollata di nuovo a Rafah per ripararsi dalla guerra del 2023, ricominciata dopo il rapimento di 250 ostaggi israeliani da parte del gruppo palestinese armato di Hamas. Cinque mesi più tardi, essendo i civili palestinesi sottoposti ad un vero massacro, l’artista si è spostata in Egitto con la madre; tuttavia, poiché questa aveva bisogno di cure che il governo egiziano non dispensava ai profughi, Bayan ha portato la madre in Francia; qui l’artista ha ottenuto anche una borsa di studio. Il suo lavoro le sta aprendo porte essenziali: dopo aver esposto – pure se in mezzo a grandi difficoltà - a Gaza (2022) e Betlemme (2023), la giovane artista ha partecipato ad alcune mostre negli USA, in Egitto e in Olanda.
La formazione di Bayan Abu Nahla è iniziata presso il Rachel Corrie Children’s Center, oggi smantellato, che avviava i bambini di Rafah alla pittura, alla musica e alla recitazione. Nel 2019 Bayan si è iscritta all’UNRWA Vocational College di Gaza, diplomandosi in graphic design. In seguito si è unita agli attivisti del Banafsaj, presso il Tamer Institute for Community Education: fondata nel 1989 dopo la prima Intifada, questa organizzazione si occupa di editoria, sostiene le biblioteche locali e promuove la diffusione di lettura e scrittura, dato che l’occupazione israeliana ha reso sempre più difficile e pericoloso spostarsi sia per lavorare che per andare a scuola. Bayan si dedica da sempre soprattutto alla grafica, ma presso l’Eltiqa Art Gallery di Gaza ha imparato a praticare anche incisione e arti digitali.
Particolarmente abile nel disegno acquarellato, fin da giovanissima Bayan conservava in ordine le proprie opere, gran parte delle quali è andata perduta durante l’assalto israeliano del 2023 alla casa paterna; con questi lavori sono stati distrutti tutti i ricordi e le foto della sua vita di comunità. È naturale che i temi dominanti nell’arte di Bayan, almeno dal 2021, siano l’occupazione e la guerra. Delle prime due guerre, vissute durante l’infanzia, Bayan ricorda la paura e il batticuore; l’esperienza recente ed attuale porta con sé, in aggiunta, la percezione di uno stato di cose irrimediabile: la scomparsa di molte persone care, avvenuta da un momento all’altro e con modalità inaudite, lascia tra i palestinesi tristezza, ma anche un aspro risentimento.
Bayan sottolinea l’importanza, per chi resta, di affermare anche con l’abbigliamento il proprio essere palestinesi. Chiama martiri i giovani amici perduti, tra i quali ricorda l’artista Khaled Jarada, la pittrice Halima al-Kahlout e Muhammad Sami, con cui stava avvenendo la sua crescita artistica. Rivolgendosi soprattutto alle giovanissime generazioni, Bayan e Muhammad si consideravano più animatori che artisti e sperimentavano incroci fra le arti; per esempio sfruttavano, cercando di vincere almeno in parte il terrore delle incursioni aeree, il fatto che la musica riesce a coprirne i rumori. Ma la situazione è precipitata e i bombardamenti hanno fatto strage di un gran numero di civili, senza risparmiare scuole e ospedali. La giovane artista ha visto morire anche il caro amico Muhammad e dopo qualche tempo si è decisa a lasciare Gaza.
Fare arte, per chi vive tragedie simili, assume uno scopo diverso dal solito; all’artista non interessa il rapporto con la bellezza, perché sente soprattutto la necessità di documentare gli eventi. Anche ora, da quando Bayan vive a Marsiglia, il suo progetto artistico riguarda il corpo sociale che cerca di ricomporsi, dopo la distorsione e la frammentazione subite a causa dell’esodo e delle stragi. Uno degli aspetti più importanti della resistenza palestinese è lo sforzo di mantenere l’identità, e si condensa nel concetto di Sumud: la capacità di rimanere uniti di fronte al tentativo di annientamento da parte del colonialismo israeliano.
Come rivendica il femminismo palestinese, in questa lotta le donne sono assolute protagoniste: orti comuni, cliniche e scuole autogestite vedono la luce su iniziativa delle donne, che politicizzano anche il focolare domestico. La casa – che nelle sue forme emergenziali può essere anche una tenda, un furgone o una baracca, uno spazio in terra straniera dove ritrovarsi insieme - è il luogo in cui si tenta di ricomporre un’identità che viene negata. Nell’abitazione si costruisce uno spazio meno esposto alla violenza esterna, si prestano le cure, si ospita chi si trova d’improvviso senza un tetto, si condividono pasti e coperte.
Tramite inchiostri e acquarelli Bayan racconta quel che può di una realtà smisurata nella sua brutalità. Dipinge il buio dei rifugi, la gente rimasta tra le macerie, l’ospedale bombardato, i corpi a brandelli e il sangue, il recupero del necessario all’interno di pochi sacchi, la fuga in auto strapiene o a piedi.
L’opera di Bayan è un vero diario pittorico che descrive la devastazione totale dei luoghi. Ma principalmente prende a testimone il corpo: le persone ritratte sono denutrite, coperte di ferite e di lividi che cambiano colore a seconda delle emozioni; i visi rovinati parlano della guerra, della separazione dalla casa e dalla famiglia, dell’umiliazione continua e profonda e della disgregazione di intere comunità. Le inquadrature hanno un taglio cinematografico, con vedute dall’alto, dal basso o in ravvicinata. Gli schizzi di colore e le stesure congestionate, i panneggi e i capelli disordinati descrivono la condizione dei corpi e dell’anima. Sono gli sguardi dei personaggi a dominare: si dirigono a chi osserva, lo costringono a vedere fino in fondo e chiedono con la forza della concretezza una reazione altrettanto concreta.
I lavori grafici di Bayan sono concepiti come dolorosa testimonianza ma vogliono anche mostrare la vitalità creativa del suo popolo nelle circostanze più difficili; infatti l’artista, accanto alla descrizione dei corpi umani, inserisce anche riferimenti alle stagioni, sottolinea elementi che rappresentano il legame dei palestinesi con la terra e la natura: l’ulivo, per esempio, è un simbolo di semplicità e resistenza che ritorna di frequente nelle creazioni visive e poetiche di questo Paese, come mostra anche l’opera di Vera Tamari, artista e storica dell’arte nata a Gerusalemme nel 1945.
Ancora oggi i lavori di Bayan, anche se esprimono soprattutto rabbia e amarezza, danno spazio anche a sentimenti di serenità e amore per la vita: lo sguardo dell’artista - pur partendo dal visibile - procede oltre, alla ricerca di una catarsi. La sua ultima mostra collettiva, “Ciò che la Palestina porta al mondo” (Institut du Monde Arabe, Parigi, 2023), ha commemorato il 75° anniversario della Nakba (l’espulsione forzata dai territori), proprio per reagire all’occupazione israeliana e alla distruzione sistematica del patrimonio culturale palestinese.
Par Delphine Tanguy, Des artistes palestiniens accueillis à Marseille : "Mon corps est ici mais je suis encore à Gaza", in «La Provence», 11 novembre 2024. Tanja Lesničar Pučko, Je v času, če si žrtev vojne, sploh mogoče misliti in govoriti o umetnosti? Jo ustvarjati? [È possibile pensare e parlare di arte in un momento in cui si è vittime di guerra? È possibile crearla?], in «Dnevnik», 12 novembre 2024.
Séjour de recherche artistique de Bayan Abu Nahla (programme Pause) - Centre Norbert Elias
Briser le silence: découvrez les oeuvres de Bayan Abu Nahla - Duceppe
L’artista di Gaza e i ritratti che raccontano una vita di guerre - Invicta Palestina
Voce pubblicata nel: 2025