Nasce ad Acqui Terme (Alessandria), nel 1889, ed è seconda di sette figli.
Ha spesso raccontato un episodio, vissuto a otto anni a Valenza, come una specie di battesimo politico: un corteo di donne “scalze, malvestite e smunte” che avanzava gridando slogan, guidato da un uomo che teneva in mano una grande bandiera rossa:
Prima ancora che chiedessi chi fossero e perché urlassero in quel modo la mamma, accortasi dello spavento che provavo, mi disse che erano le pulitrici dell’oro che protestavano, guidate da un uomo, un socialista che si chiamava Filippo Turati, perché con la loro paga, guadagnata lavorando dodici ore al giorno, non riuscivano a comprarsi nemmeno il pane.
Indubbiamente l’atteggiamento della madre nei riguardi di quei moti popolari, come anche le sue riflessioni sulle ingiustizie sociali, pesarono nella formazione della giovane che ben presto sviluppò ideali di solidarietà e uguaglianza. Faceva invece risalire la sua passione per la lettura e la sua formazione intellettuale agli insegnamenti del padre che all’età di sedici anni la invitò a leggere Il Capitale di Karl Marx, raccomandandole:
Leggilo adagio, non come leggi i racconti, le fiabe o i romanzi. Leggilo adagio, capitolo dopo capitolo. Magari lo rileggi una seconda volta. E se qualche brano ti riesce incomprensibile, lo rivedremo insieme. […]. Se leggerai questo libro con attenzione, ti appariranno chiare tante cose di cui mi chiedi spiegazione. Le capirai tu stessa, perché in quest’opera c’è la radice di tutto quello che vuoi sapere e, in un certo senso, il commento a tutto ciò che sta avvenendo in questi anni.
Diplomatasi maestra, insegnò per alcuni anni e questo, insieme con la sua costituzione minuta e il volto austero illuminato da due grandi occhi azzurri, le è valso il soprannome di «maestrina», un diminutivo per nulla adatto al suo carattere. Una donna capace, a partire dal 1922, di farsi carico della responsabilità di un partito – il Partito comunista d’Italia, nato nel 1921 e di cui Camilla fu una dei fondatori - diventandone nel 1927 la segretaria politica. Infatti, dopo l’arresto di Gramsci nel 1926 e in seguito alla messa fuorilegge del partito, mentre alcuni ne proponevano l’auto-scioglimento, spingendo i militanti a ritirarsi a vita privata, Camilla Ravera sostenne che proprio una situazione così difficile rendesse necessario il partito, se non altro per incoraggiare i compagni; e che si dovesse creare una struttura clandestina capace di sfuggire al controllo dell’Ovra. In quella circostanza fu appunto lei a ricoprirne, dopo Gramsci e prima di Togliatti, la carica di segretaria: la prima donna segretaria di un partito politico in Italia, e non è che dopo ce ne siano state molte… Fino ad allora aveva avuto come nome di battaglia Silvia (e con quel nome continuarono a chiamarla affettuosamente Terracini e Togliatti), ma in quel frangente lo cambiò in Micheli, che poteva essere un cognome e adattarsi anche a un uomo:
E tutti lì lo interpretarono in questo senso, anche la maggior parte dei compagni che […] mi dicevano “Bada di riferire tutto quello che ti abbiamo detto a Micheli”. E io rispondevo “Puoi essere sicurissimo che Micheli saprà esattamente tutto”.
Camilla non si definì mai femminista, ma sempre e soltanto “un’attenta osservatrice delle condizioni di vita delle donne”. Era convinta che la lotta degli operai dovesse andare di pari passo con quella delle donne, che aveva una sua specificità; e nei suoi articoli - in particolare in quelli sulla rubrica La tribuna delle donne sul “L’ordine nuovo” che Gramsci le aveva affidato - sosteneva che la donna era doppiamente oppressa, sul lavoro e in famiglia e che bisognava riconoscere il valore sociale della maternità. Chiariva anche che il problema della questione femminile andava quindi ben al di là della lotta per il suffragio, comprendendo il tema della maternità, le differenze che ancora esistevano fra i due sessi e le ingiustizie sociali di cui da secoli le donne erano vittime e che tutto questo non si sarebbe potuto risolvere con una protesta femminile isolata, ma doveva diventare un orizzonte dell’intero movimento operaio. Ma le lotte delle donne, e non solo quelle, subirono una dura battuta d’arresto in seguito all’avvento al potere dei fascisti, in quanto da quel momento l’obiettivo prioritario del Partito comunista fu la sopravvivenza, prima ancora della lotta; e in un quadro politico che stava rapidamente precipitando verso una dittatura gli spazi per le rivendicazioni femminili si restrinsero fino a scomparire. Fu solo a partire dal secondo dopoguerra che l’opera della Ravera in ambito femminista poté riprendere, quando, come deputata, fu cofirmataria di molti progetti di legge principalmente incentrati sulla tutela della maternità e la parità delle retribuzioni tra uomo e donna.
Dopo che per quasi otto anni era riuscita a sfuggire ai vari mandati di arresto contro di lei, nel luglio 1930, in seguito a una “spiata” fu arrestata. La condanna, di anni quindici e mesi sei, si riferiva a reati diversi: appartenenza al Partito comunista, propaganda e agitazione contro il regime e ricostituzione del Partito Comunista. Dei quindici anni di condanna, ne scontò cinque in cella, nelle sezioni femminili dei carceri di Trani e Perugia, posta in regime di isolamento in quanto “detenuta pericolosa”. Poi, grazie ad amnistie e indulti, la sua pena si ridusse e nel 1936 sarebbe dovuta essere definitivamente scarcerata; ma per i detenuti giudicati “particolarmente pericolosi” il regolamento di polizia prevedeva invece della liberazione la commutazione della pena restante in altrettanti anni di confino. Fu perciò inviata dapprima a Montalbano Jonico, in Lucania; poi a San Giorgio Lucano, un paese all’interno e ancora più isolato. Il 28 maggio 1937 fu infine inviata nell’isola di Ponza, dove si trovavano già al confino molti dirigenti comunisti e dove restò più di un anno, fino a quando tutta la Colonia fu trasferita a Ventotene.
Allo scoppio della guerra il direttivo comunista di Ventotene, pedissequamente allineato sulle posizioni di Stalin, emanò un documento che sposava le tesi dell’Internazionale sull’equidistanza dagli imperialismi in lotta. Ravera fu d’accordo con Terracini nel criticare questa posizione, così come entrambi avevano criticato il patto Ribbentrop-Molotov. Erano le uniche voci “stonate” di un coro unanime e pagarono questa scelta con l’allontanamento dal partito, da cui furono infatti espulsi.
Riacquistata la libertà dopo la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, riuscì a raggiungere, dopo molte peripezie, i suoi famigliari, sfollati a San Secondo di Pinerolo. La sorella quasi non la riconosceva: infatti Camilla era estremamente segnata e deperita ed ebbe bisogno di un lungo periodo di convalescenza per riacquistare le forze, prima di poter fare ritorno a Torino e riprendere i contatti con i compagni.
Avrei voluto prender parte attiva alla resistenza, per dare un contributo alla liberazione del nostro Paese, ma me lo impedirono il medico, i miei cari e soprattutto le mie deboli forze. Quando potei alzarmi dal letto, nell’aria c’era già la primavera. Eravamo allora nel 1945.
Quando, dopo la Liberazione, Camilla rientrò a Torino nel maggio del 1945, aveva cinquantasei anni: era una donna dalla salute minata dalla vita clandestina, il carcere e il confino, ma aveva una lunga esperienza nella battaglia antifascista, una salda competenza da militante e una gran voglia di ricominciare. Però c' era, nella sua vita quel buco nero di alcuni anni - dal l939 al l945 – in cui era stata di fatto fuori del partito, colpita da un provvedimento disciplinare: anni di solitudine estrema, sopportati con grande dignità. Con la fine della guerra si chiarì finalmente anche il problema dei suoi rapporti con il Partito comunista. Nel maggio 1945 Togliatti arrivò a Torino, nella sede della federazione.
I compagni gli si affollano attorno, lo festeggiano e lui li riconosce e li saluta uno ad uno. Poi a un tratto si guarda attorno e domanda […]: “dov’è la Ravera?”. Le facce dei compagni sono imbarazzate, qualcuno gli ricorda, non senza titubanza, che la Ravera non fa più parte del partito. E Togliatti […] sbotta: “Ma scherziamo? Chiamatemi la Ravera e che non si parli più di quella sciocchezza di Ventotene”.
Così Camilla Ravera venne, silenziosamente, riabilitata senza clamore né dibattito e riprese l’attività politica come membro del Comitato centrale (in cui fu eletta al 5° congresso, nel gennaio del 1946) e della segreteria federale di Torino; ma comunque - forse per la sua salute fragile o forse per gli strascichi della rottura intervenuta nel 1939 – non ricoprì più nel Pci un ruolo all’altezza delle sue qualità e dei suoi meriti. Fu anche tra le fondatrici nel 1945 dell’Udi- e fu eletta nella sua Commissione nazionale, dove rimase fino al 1950 - e partecipò anche, con Ada Gobetti a Parigi alla fondazione della Federazione internazionale democratica delle donne.
Nel 1946 fu candidata - ma non eletta - all’Assemblea Costituente; fu invece eletta, nel dicembre di quello stesso anno, nella prima tornata di elezioni amministrative, consigliera comunale a Torino. Nel 1948 fu eletta deputata, nel collegio Torino-Novara-Vercelli, nella I legislatura e venne rieletta anche nella II. In quegli anni fu cofirmataria di molti progetti di legge principalmente incentrati sulla tutela della maternità e la parità delle retribuzioni tra uomo e donna, ma dopo non si presenterà più; la sua salute era piuttosto compromessa, e poi “Bisogna lasciare il posto ai giovani, no?”. In quegli anni in cui fu libera da impegni istituzionali dedicò molto del suo tempo e delle sue riflessioni al movimento delle donne su cui cominciò a scrivere libri e si dedicò anche a un prezioso lavoro di conservazione e sistemazione di memorie.
Poi, una nuova svolta: il 10 gennaio 1982 Pertini, suo compagno di confino, divenuto presidente della Repubblica, la nominò “per altissimi meriti in campo sociale” senatrice a vita in sostituzione dello scomparso Ferruccio Parri: era la prima donna a ricevere quell’importante riconoscimento; dopo di lei, Rita Levi Montalcini, Elena Cattaneo e Liliana Segre.
Camilla aveva allora novantadue anni: chiese di entrare a far parte della Commissione per la pubblica istruzione ma, ormai molto anziana, partecipò poco all’attività del Senato, del quale presiedette la seduta che ne nominò Francesco Cossiga presidente nel luglio del 1983. Morì a Roma il 14 aprile 1988. Davvero una vita, la sua, interamente dedicata all’impegno politico e al partito, ma senza mai un rimpianto perché – ci teneva a sottolinearlo – la sua era stata una scelta libera:
Ho dedicato tutta la mia vita al partito, senza condizioni. Non ho mai avuto un momento di dubbio, nemmeno ora che dovrei tirare le somme della mia vita. […] Non ho mai attraversato, quindi, momenti di crisi, né ho mai avuto l’esigenza di pensare a me come persona o come moglie-madre. […] e poi, fin da giovane, sono stata tanto presa dalla politica da non aver né tempo né disponibilità per accettare l’idea di avere un compagno e un figlio. […] Qualcuno, quando ero giovane, mi avrà pur corteggiata. Non è un ricordo che rievoco spesso. Ho ricevuto anch’io lettere d’amore, ma non ho mai risposto. […] Non avere un uomo, né un amico particolare, né un marito non ha significato sacrificarmi. Ho scelto io di non sposarmi. Non è stato certo il partito ad impedirmi di fare una scelta del genere.
Ada Gobetti, Camilla Ravera. Vita in carcere e al confino, Guanda, Parma 1969; Camilla Ravera, Diario di trent’anni. 1914-1943, Editori Riuniti, Roma 1973;
Nora Villa, La piccola grande signora del PCI. Camilla Ravera: Rivoluzionaria di professione, Rizzoli, Milano 1983
Rita Palumbo, Camilla Ravera racconta la sua vita, Rusconi, Milano 1985.
Voce pubblicata nel: 2025