A ridosso dell’anno – il 1810 – che tradizionalmente segna l’inizio della conversione, in ambito letterario e religioso, di Alessandro Manzoni, si colloca un poemetto che, d’impronta neoclassica per argomento e stile, inevitabilmente finisce tra le opere da lui respinte. Intitolato a Urania (musa dell’astronomia), composto in endecasillabi sciolti fra 1808 e 1809 e rimasto incompiuto, il poemetto illustra l’agone che oppone Pindaro alla «minor Corinna» (v. 50).
Poiché il grande tebano aveva trascurato, in un’occasione, di tributare l’omaggio dovuto alle Grazie, le tre dee, offese dalla dimenticanza, sostennero durante la contesa Corinna, conferendo all’esecuzione della giovane donna una soavità che le valse la vittoria.

Nell’esordire su tale episodio (il poemetto prosegue raccontando in che modo Pindaro, confortato da Urania sotto le spoglie di Mirtide, maestra del poeta, reagisca alla sconfitta) Manzoni guarda a una tradizione antica, secondo la quale Corinna, allieva di Mirtide e a propria volta, forse, maestra di Pindaro, lo avrebbe ripetutamente battuto. A differenza di Pausania, che ne cita soltanto una, Eliano e il lessico della Suda le attribuiscono ben cinque vittorie sul poeta di Tebe. Ma come spesso accade, le fonti classiche, per quanto siano tanto più vicine di noi alla poetessa, non risultano né concordi né lineari; inoltre, l’appartenenza di Corinna alla medesima epoca in cui visse e operò Pindaro è stata sottoposta, da parte di studiosi moderni, a dubbi accesi da molteplici questioni: contenutistiche, linguistico-stilistiche, iconografiche. C’è qualcuno che arriva persino a spostare la cronologia della poetessa ‘in avanti’ sino a sfiorare l’età ellenistica.

Tra le informazioni a noi fornite dagli antichi, sembra contraddire lo spirito agonistico di norma attribuito a Corinna l’aneddoto secondo il quale ella avrebbe biasimato Mirtide, rea di aver sfidato – lei donna – Pindaro, un uomo; voci misogine insinuano inoltre nella tradizione il sospetto che a determinare le affermazioni di Corinna sul tebano sia stata la bellezza, non il talento, oppure lo scarso discernimento dei giudici, incapaci di formulare una valutazione corretta.
Accertata pare invece la città d’origine della poetessa, Tanagra in Beozia (altre ipotesi la facevano nativa di Tebe, di Tespie o di Corinto), così come sono condivisi i nomi dei genitori, Acheloodoro e Procrazia.

Organizzata dagli antichi in cinque libri, la produzione di Corinna è giunta sino a noi nello stato di frammenti (circa quaranta), per lo più grazie alla tradizione indiretta, in particolare alle citazioni di grammatici; rimane l’auspicio che un futuro ritrovamento o una sicura attribuzione di versi del cui autore ora si dubita ci consentano di ‘avvicinarla’ e di conoscerla meglio.

Amante del mito, che spesso rielabora in una personale interpretazione, e sulla cui importanza ai fini della poesia ammonì, secondo un celebre aneddoto, Pindaro stesso, Corinna si volge soprattutto alle leggende riguardanti la regione natia e i suoi eroi. Attenta ai gusti e alle predilezioni del suo pubblico, ne asseconda quindi l’interesse verso le saghe locali e gli si si rivolge in dialetto beotico (sebbene di solito la poesia corale ricorra al dorico).

Nel frammento 655 dei Poetae melici Graeci curati da Denys Lionel Page (Oxford, 1962) la voce recitante, assunta dalla poetessa, si dichiara pronta a narrare, su invito della musa Tersicore, racconti avvincenti per le Tanagridi dai bianchi pepli: la situazione cui si fa cenno, in questa ridotta sopravvivenza di un testo proemiale, è riconducibile a una festa cittadina allietata, secondo le modalità peculiari dei parteni, anche da coreografie di fanciulle.
I versi di Corinna ‘catturano’ e rimodulano anche le peripezie di Orione, cacciatore metamorfosato in astro, del dio fluviale Cefiso, padre di Narciso, dei Sette a Tebe, di Beoto, capostipite della gente omonima…

Un papiro rinvenuto in Egitto nel 1906 ci ha permesso di leggere, grazie a una trascrizione risalente al II secolo d.C., altri superstiti versi di Corinna, appartenenti a un componimento sulle nozze delle figlie di Asopo, fiume di Beozia. Oltre a questi, il papiro ci ha donato un lacerto testuale che conferma la propensione della poetessa per gli agoni, ossia una manciata di versi in cui vengono rappresentate mentre contendono ‘a colpi di versi’ due montagne (sempre della Beozia): il Citerone e l’Elicona.

Nella patria di Corinna e di Pindaro, pertanto, gareggiano non solo i mortali, ma anche cime possenti, identificate addirittura – ciò accade in riferimento all’Elicona – con la sede delle Muse. Contro le previsioni suggerite dal ‘rango’ e dal blasone mitologico dell’Elicona, e a conferma invece delle novità con cui Corinna ‘ri-modella’ i miti su cui si sofferma, vince il Citerone.

Antipatro di Tessalonica, poeta vissuto nella Roma augustea, elenca in un epigramma, compreso nella monumentale Antologia palatina (IX, 26), nove autrici che furono in grado di raggiungere accenti divini, ispirate dalla regione, intrisa ab origine di poesia, della Pieria e dall’Elicona. Tra loro, create dalla madre Terra sulla terra in corrispondenza con le Muse celesti create da Urano, incontriamo sia Mirtide «dal dolce canto» (v. 7) sia Corinna, di cui l’epigrammista afferma che celebrò lo scudo di Atena (vv. 5-6).

Nonostante sia stata fregiata dal soprannome di Mosca a motivo di liriche talora lievi e impalpabili quanto ali sottili, Corinna ci sembra maggiormente se stessa in questa raffigurazione: quella di una poetessa combattente, battagliera, i cui versi inneggiano all’egida di Atena, ossia alle armi della dea che nacque in un balzo, già compiutamente fanciulla, bellicosa e splendente, dal capo di Zeus, suo padre.


Voce pubblicata nel: 2025