La madre di Amelia Osta Cottini, Adelaide Brughera, apparteneva a una famiglia di industriali, proprietari di una cartiera; il padre invece, Giovanni Osta, dedito al commercio, a Genova, fu impiegato in seguito alla ditta Ansaldo Armstrong e C.

Il cognome Osta deriva dal francese Houst; l'ultimo Houst fu il bisnonno Jean, che si arruolò quando ancora la Savoia era territorio francese. Grazie alla vicinanza della nonna materna, Amelia prese confidenza con la lingua francese. Studiò dagli 8 ai 14 anni presso il Collegio di montagna di Dumenza, tra Luino e Ponte Tresa; una istituzione che verrà chiusa nel 1935, e che Amelia ricorderà in un suo articolo sul «Secolo XIX»:

«Riconosco di dovere tutta la mia impalcatura mentale ai metodi d'insegnamento delle suore... Suor Maria Vincenzina Civati mi diede l'amore alle lettere... suor Maria Clementina per gli studi storici... Prima di me presso il collegio era stata educata la mia sorella maggiore e prima di lei mia madre».

Le giovani conversavano obbligatoriamente a seconda dei giorni, in francese, tedesco e italiano.

In seguito Amelia proseguì l'apprendimento a Milano, dove a soli 14 anni ottenne il diploma di maestra elementare alla scuola normale o magistrale femminile; fu poi a Zurigo e a Losanna, con il diploma di magistero superiore. È probabile che abbia frequentato l'università di Zurigo, probabilmente solo come uditrice, dato che non compare il suo nome nella lista delle iscritte.

Fra il 1895 e il 1898 insegnò letteratura italiana e storia universale nella scuola femminile di Locarno. E sul tema dell’insegnamento scrisse due romanzi pubblicati dal 1898 al 1900, gli unici che portano il suo nome originale: Mignon Sartori e L'istitutrice del baronetto inglese. Sono i primi due romanzi di una narratrice prolifica; ne firmerà con altri nomi oltre una trentina.

All’inizio del secolo nuovo si occupò brevemente delle riforme scolastiche sulle pagine del «Secolo XIX». Lugano invece rappresentava per lei il rifugio degli esuli e in un romanzo d'appendice, pubblicato nel 1910, sul «Secolo XIX», dal titolo In Terra libera descrisse molte delle vicende di quegli anni.

Nel 1898 arrivò a Genova con il marito, Giovanni Cottini.

Il 9 ottobre 1898 varcò la soglia della redazione del «Secolo XIX» e si trovò di fronte a Gandolin, Luigi Arnaldo Vassallo. Fu messa subito alla prova: doveva scrivere un articolo sulla scultrice Jeanne Royannez, moglie del politico socialista Clovis Hughues, la quale aveva ucciso a colpi di pistola un giornalista che diffamava il marito. L'esito positivo della prova determinò l'inizio della sua carriera giornalistica con lo pseudonimo di Flavia Steno, scelto da Gandolin. Dopo la morte di Gandolin, il 10 agosto 1926, la Steno narra: «Erano gli albori della vita politica della nuova Italia, di un giornalismo che non era più quello patriottico durato dal 1840 al 1860... Ferdinando Maria Perrone propose a Vassallo di essere il direttore del «Secolo XIX»...da questo piccolo foglio ligure partirono segnali di battaglie economico-sociali formidabili».

Flavia Steno esprimeva posizioni moderate nei confronti del femminismo, ma negli anni che intercorrono tra il 1899 ed il 1901, pur essendo alle prime armi, fece strada proprio trattando questioni scottanti: per esempio la liceità dell'avvocatura femminile o la necessità dell'impiego per le donne. Nel settembre 1900, in occasione dell'Esposizione di Parigi ebbe luogo il congresso internazionale femminile, indetto dal giornale «La Fronde» e la Steno conquistò il diritto di cronaca. Pur essendo ammiratrice di donne come Emilia Mariani, assertrice del voto femminile, ella non lo fu, poiché considerava la donna italiana impreparata culturalmente. Durante il biennio “rosso”, le sue posizioni di fondo si ritrovano nella rivista femminile «La Chiosa», da lei fondata il 20 novembre 1919. Nel 1922 partecipò al congresso liberale in rappresentanza delle donne. Se da un lato la Steno propone i suoi leitmotiv, come portavoce del partito liberale e si schiera a favore dell'impresa di Fiume, dell'italianità, dell'intoccabilità dell'istituto familiare, sostiene una legge sulla ricerca della paternità, per debellare la piaga dell'abbandono dei bimbi, proclama la necessità del lavoro per le donne, che competono con uomini di ritorno dal fronte, si oppone agli scioperi e allo stesso tempo indice delle campagne referendarie fittizie per dibattere sul divorzio.

Dal 1923 la sua rivista fu presa di mira, perché vi si deploravano i metodi della politica di Mussolini. Il 31 dicembre 1925 la Steno fu costretta a congedarsi dalle sue affezionate lettrici. Sul «Secolo XIX» di questi anni sono degni di nota i suoi reportage - firmati con vari pseudonimi: M.Valeri, F.Steno ed Ariel - da Berlino dell'agosto 1915, da Udine (dalle sezioni sanitarie del San Michele, di Palmanova, della Carnia e del Montenero) del 1915 e del 1916 e dalla Svizzera del 1917, dove tenne delle conferenze; a Zurigo durante un incontro, il 24 ottobre, annunciata la disfatta di Caporetto, ella fu presa dalla commozione e pianse di fronte alla platea.

Fu inviata a Parigi durante la conferenza di pace. Sempre nel 1917 pubblicò Guerra di popolo, argomentando la necessità dell'interventismo, Il germanesimo senza maschera, firmandosi Ariel e F.Steno, descrivendo il pericolo germanico come una piovra e Per non dimenticare, come Mauro Deni, “pagine per la pace e per la guerra”. Recandosi a Berlino, nel 1919, osservò le conseguenze della guerra.

Durante il ventennio fascista scrisse romanzi e apparve di rado pubblicamente. Espose le sue idee più intime rispondendo alla posta delle lettrici, essendo divenuta responsabile, dal 1930, della rubrica La posta di Mirandolina, sempre sul «Secolo XIX». Descrisse le imprese di due figure illustri dell'alpinismo nel 1929 e nel 1937: Balmat du Mont Blanc e il Duca degli Abruzzi.

In un articolo del 21 gennaio 1938 la Steno, in occasione di una conferenza volta a celebrare i suoi quarant'anni di giornalismo, si espresse con prudenza verso il fascismo e la missione del giornalista di regime. Scrisse così sui balilla genovesi, sui discorsi del duce, sul fascismo e la visione della donna, sul divieto del consumo di beni importati, e per ordine del governo, su Graziani in Tripolitania, e sui pionieri in Africa.

Cospicuo è il numero degli articoli di approfondimento su temi letterari e dedicati a biografie delle donne celebri della “Roma romantica”: Maria Malibran, Donna Paola, Sahiba Gogcem, Madame Roland; sulle principesse, Maria Mancini, la marchesa di Pompadour, Juliette Adam, la duchessa di Galliera (su cui intendeva portare a termine una biografia), Eugenia Ravasco. Votò nel 1925 contro la soppressione dell'associazione dei giornalisti di Genova e dichiarò alla riunione: «Mi strangolino se hanno il potere di farlo, ma non mi chiedano di fornire loro la corda». La collega Willy Dias (collaboratrice della «Chiosa», redattrice del «Caffaro», giornalista dell'«Unità» e romanziera), nel 1952, ricorda che quel giorno, «la accolse un silenzio glaciale». In quel periodo collaborò con i carabinieri che fecero uscire allo scoperto un mandante del delitto Matteotti. Nell'archivio della famiglia Tenze (Memmina Tenze, nipote di Flavia Steno, aveva sposato il caporedattore de «Il Secolo»; il loro figlio Guido fu molto legato alla Steno) sono conservate delle fonti che testimoniano del suo disaccordo con la RSI, che la denigrò con le seguenti parole: «tipico rappresentante di quel manipolo sparuto di isteriche che attendono i liberatori... ce la trovammo tra i piedi al sorgere del fascismo a Genova. Durante la quartella i fratelli Perrone passarono all'opposizione e Flavia Steno si scagliò contro i fascisti che definì tutti assassini».

Il 27 luglio 1944, in seguito alla pubblicazione di un suo giudizio sui libri di testo per bambini, apparso nel 1943 sul «Secolo XIX», in cui osteggiava il fascismo («in blocco non è eccessivo giudicarli un obbrobrio»), venne condannata a quindici anni di reclusione. Lasciò Genova, si recò a Zerba, a Moncalvo, dove trovò ricovero in un cascinale, in cui dimoravano i partigiani. Grazie all'ottenimento di una carta d'identità falsa, sotto il falso nome di Rina Fantoni, attese la caduta del regime. Il giornalista Nanni Carnesi in un articolo di memorie, rammenta di quando la riabbracciarono a Moncalvo, “in una notte di tempesta”. Tornò a scrivere per un anno al «Corriere» e poi al «Secolo XIX», fino al dicembre del 1946. Il 4 dicembre 1946 condannò in un articolo i massacri di civili, soprattutto di donne e bimbi nei campi di Esperia da parte delle truppe marocchine, paragonandoli agli orrori dei campi di sterminio nazisti e lanciando un appello alle donne parlamentari da lei elette, per rendere pubblico il misfatto. Morì poco dopo, la notte del 19 dicembre 1946. I colleghi e le colleghe, dopo la sua scomparsa, ne diedero notizia sui giornali genovesi. Marbett su «Il lavoro nuovo» scrisse: «come la Serao era imbevuta fino al midollo di questo agre e affascinante odor d'inchiostro tipografico...grandi figure l'una e l'altra, nella loro sostanziale modestia fortissime rivendicatrici, senza darsene l'aria, dei diritti dell'intelligenza femminile».

Come romanziera ottenne nel 1932 un riconoscimento meritorio come “Scrittore d'arte” dall'Accademia linguistica di Belle Arti di Genova.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Amelia Osta Cottini

I suoi romanzi: La Nuova Eva, 1900; Fra cielo e mare, 1901; Il pallone fantasma, 1902; Così la vita, 1903; Oltre l'odio, 1904; Il sogno che uccide, 1905; La veste d'amianto, 1906; L'ultimo sogno, 1907; Il gioiello sinistro, 1908; Sua moglie, 1909; Il miraggio, 1910; Tormento, 1911; Zurì, 1912; Il passato che sorge, 1913; La casa abbandonata, 1914; La lettera viola, 1915; Gli orfani dei vivi, 1918; Il silenzio ardente, 1921; Il volto della felicità, 1920; Fiamme nella steppa, 1924; Passo doble, 1927; La notte di San Lorenzo, 1919; La figlia della tempesta,1920; I cinque suggelli neri, 1922; Il piombo nell'ala, 1925; Un fatto di cronaca, 1926; Le labbra condannate, 1927; Malafortuna, 1928; La duchessa di Migliano, 1928; L'altro amore, 1929; Senza macchia, 1930; Nella steppa, 1932 (con F.Tenze); L'abisso dell'amore, 1935; L'avventura di Lucina, 1935; Assenzio, 1938; Ali nella fiamma, 1939; Così finì il sogno, 1939; Nina vuol vivere, 1939; Un dramma del gran mondo, 1940; Il duello con l'ombra, 1942; Sissignora, 1940 (divenne un film); Il re Mida, 1945;Appassionatamente, 1946.

Fonti confidenziali conservate presso Archivio storico Ansaldo di Cornigliano (Genova), Serie scatole nere, blu, miscellanea

Archivio Tenze (Genova), ricco di materiale, conserva diverse tesi su Flavia Steno, tra cui quella di Teresa Biaggini

Cavassa V.U., Flavia Steno, in «Il Secolo XIX», 24-12-1946, p.1

Dias W., Flavia Steno, in «Unità», 24-12-1946, p.2

Varaldo A., Una vita di lavoro, Flavia Steno, archivio del «Secolo XIX», 29-12-1946, p.3

Balestreri I., Tre secoli di giornalismo genovese, Genova, 1961

G.Parodi, Flavia Steno, “femminismo” e storie rosa, archivio del «Secolo XIX», 20-9-1981

Rimassa A., Firmato Flavia Steno, archivio del «Secolo XIX», 15-12-1996

Santini I., Una femminista di destra, in Vivere da protagoniste. Donne tra politica, cultura e controllo sociale, Studi storici Carrocci/13, ottobre 2001

Stolfi V., La collaborazione giornalistica di Flavia Steno con «Il Secolo XIX» e «La Chiosa». Vicende accadute in Svizzera, in Francia ed in Italia a partire dalla fine del secolo XIX fino al decorrere del 1927, Lampi di Stampa, Milano, 2007

Picchiotti A., Flavia Steno. Una giornalista, una donna, Fratelli Pirri, Genova, 2010

Voce pubblicata nel: 2012

Ultimo aggiornamento: 2023