«La giovane poetessa amata dal vecchio Giosuè Carducci». Punto. Difficile che anche chi conserva qualche ricordo del liceo, vada oltre su Annie Vivanti. Eppure negli ultimi anni della sua vita, sotto il fascismo, Annie è stata una celebre e celebrata scrittrice e giornalista. Addirittura Matilde Serao aveva coniato un termine sarcastico per definire le sue epigone, autrici di romanzi di consumo: le “vivantine”.
Annie si era da anni stabilita definitivamente in Italia: la nostra causa nazionale era stata un suo cavallo di battaglia. La accompagnava sempre il suo segretario Luigi Marescalchi. Non fece i conti con il fascismo: nel 1941 fu colpita da un provvedimento di domicilio coatto ad Arezzo, poiché era cittadina britannica. Fu uno scandalo: Mussolini dovette intervenire. Tornata libera, rientrò a Torino, dove abitava. Ma non stava già bene e le sue condizioni si aggravarono. Quando seppe della morte dell’amatissima figlia Vivien, un talento del violino, suicidatasi a Brighton nell’autunno 1941, la situazione precipitò. Annie morì il 20 febbraio 1942, poco dopo essersi convertita al cattolicesimo. Oggi è sepolta al Cimitero monumentale di Torino. Sulla tomba, i primi versi della più celebre fra le poesie che Carducci le aveva dedicato: «Batto alla chiusa imposta con un ramicello di fiori/ Glauchi ed azzurri come i tuoi occhi, o Annie».
Bella, non era mai stata. Ma il colore degli occhi e l’eleganza delle figura, piccola e snella, non passavano inosservati. Aveva intelligenza e talento. E lo sapeva.
Fervente sostenitrice della causa irlandese e del Sinn Fein, è stata una delle intellettuali anglo-sassoni che hanno “adottato” il nostro Paese, come Jessie White Marioe Margaret Fuller. Ma in realtà, all’inizio, voleva fare la poetessa. La cosa che le è riuscita peggio. Ad aprire la sua raccolta Lirica, del 1890, c’è la prefazione di Giosuè Carducci. Maschilista e nemmeno brillante («Signorina, nel mio codice poetico c’è questo articolo: Ai preti e alle donne è vietato far versi. - Per i preti no, ma per Lei l’ho abrogato...»). Segnò la sua consacrazione.
Il vecchio poeta si era innamorato. Ma ottenere quella prefazione era stata un’avventura. Lo raccontò lei stessa in un articolo intitolato Giosuè Carducci, apparso sulla «Nuova Antologia», il 1° agosto 1906: «Un giorno, nel 1890, a Milano, mi trovai timida e tremante dinanzi al formidabile scrittorio dell’editore Emilio Treves. Egli teneva tra due dita sdegnose un sottile rotolo manoscritto, che io gli avevo portato». In sintesi: l’editore è quasi inorridito dall’idea di pubblicare le poesie di quella ragazza. Poi... «forse gli apparvi piccola e triste quando volsi le spalle e me ne andai verso la porta, perché aggiunse come per consolarmi: Me ne dispiace, creda! Ma ci vorrebbe, per esempio, una prefazione del Carducci. Allora si potrebbe riparlarne…».
Annie scese le scale, ritrovò la sua governante, Miss Gann, e le disse che Treves stamperebbe il suo libro solo con una prefazione di Carducci. Al che la buona donna: «E chi sarebbe?». «Oh Dio, uno come Dante, morto trecent’anni fa», rispose lei. Carducci nel 1890 aveva 55 anni. Mentre lei, Annie, ne aveva 24. Il fratello Italo la spronò: «Ma prendi il primo treno per Bologna e va a cercarti la prefazione». Lei partì l’indomani. Si innamorarono. Anche se lei non perse la sua verve: «Più tardi, quando lo venni a conoscere meglio, appresi che era incapace di pensare a più di una cosa per volta…». In ogni caso nell’Italia umbertina fu scandalo: lui era il vate (prima di D’Annunzio) e lei era una chanteuse. Ovviamente Annie non era una chanteuse (da ragazza si era cimentata in teatro), ma per l’Italia dell’epoca non era una donna perbene. Le dicerie e i gossip giornalistici sui suoi amori condussero perfino a un processo a La Spezia. Il fratello Italo, medico condotto, che si era scagliato contro i detrattori di sua sorella e contro i giornalisti, scrisse che la sorella «ha tre grandi torti presso la società, di avere molto ingegno, di essere bella e troppo giovane. A ogni modo si rialzerà presto per la poesia e per l’arte italiana». Lo scandalo provocò anche la stroncatura del suo romanzo del 1891, Marion artista di caffè concerto. Eleonora Duse lo definì “poca cosa”. Molti, in particolare condannavano la «troppa libertà in maniera amorosa», come affermò il critico Giuseppe Chiarini negando una recensione allo stesso Carducci. Annie, per educazione (il padre era un esule mazziniano, la madre una scrittrice) era una donna di mente aperta. Aveva solo viaggiato moltissimo (e avrebbe continuato a farlo): era vissuta tra l’Italia, l’Inghilterra, la Svizzera e gli Stati Uniti. Nel 1892 si sposò in Inghilterra con l’irlandese John Chartres, uomo politico, giornalista e in seguito attivista del Sinn Féin, il movimento indipendentista irlandese fondato nel 1905. Dal quel momento trascorse quasi vent’anni tra Gran Bretagna e Stati Uniti, scrivendo solo in inglese: romanzi e opere teatrali. Tutti di successo. L’unico flop l’ebbe proprio, di nuovo, in Italia, dove, tra 1898 e 1899, fu messo in scena, senza fortuna, il suo dramma La rosa azzurra. Durante la prima guerra mondiale, si schierò per la “causa italiana”, contro lo status quo imposto dalle grandi nazioni, in particolare e soprattutto l’Inghilterra.
Nel 1900, la figlia Vivien, nata nel 1893, cominciò ad affermarsi come giovane talento del violino. Annie, felice e al tempo stesso tormentata dall’annichilimento provocato dalla carriera della figlia, ne trasse due opere: il racconto The true story of a Wunderkind, del 1905, La vera storia di una bambina prodigio; e il suo romanzo più famoso, I divoratori, apparso in Inghilterra nel 1910, poi riscritto in italiano nel 1911 e pubblicato con successo, dopo un lungo oblio sul nostro mercato. La Vivanti vi descrive come, generazione dopo generazione, i geni annientino e quasi inghiottano le loro madri, che a loro volta, se sono state altrettanto talentuose, hanno risucchiato le loro madri. Il vero problema posto dalla Vivanti è: perché il risultato finale è una catena di infelicità? Il suicidio di Vivien sembrò dolorosamente avvalorare la sua tesi.
Nonostante tutto lei conservò a lungo la sua ironia. Nella poesia Fra cinquant’anni scriveva: «Vecchia zitella, calma e intelligente, / Serena, rubiconda e senz’affanni.../ La casa un po’ sossopra qualche volta. / Ma senza preti, gatti o canarini…».
Viene catalogata tra le autrici di romanzi di facile consumo. Ma nei suoi libri ha affrontato temi scabrosi. Per esempio, in Circe, romanzo-confessione di Maria Tarnowska, una nobildonna russa che finì sotto processo nel 1910 in Italia per aver fatto uccidere un suo amante per denaro. La Vivanti ottenne di intervistarla. E ne trasse uno dei primi romanzi-reportage, in cui la Tarnowska risultava essere vittima delle circostanze. In seguito, Annie affrontò nel dramma L’Invasore (1915), il tema degli stupri delle donne belghe durante l’occupazione tedesca. Lo riprenderà nel romanzo Vae victis (1917). La censura fu pressoché totale. In Naja tripudians (1920) puntò il dito contro la società corrotta del Primo Dopoguerra. Negli anni Venti, sempre più dalla parte delle nazionalità oppresse, denunciò, in Mea culpa (1927, Mondadori), il colonialismo inglese in Egitto. Mentre il romanzo Terra di Cleopatra (1925, Mondadori) si rivelò un vero reportage dall’Egitto in lotta contro il dominio inglese.
Addio, caro orco, corrispondenza tra Vivanti e Carducci fra 1889 e 1906, a cura di Anna Folli, Feltrinelli, 2004
Annie Vivanti, Marion artista di caffè-concerto, 1891 (edizione Sellerio, a cura di Carlo Caporossi, 2006)
Annie Vivanti, Racconti americani, 1891 (edizione Sellerio, a cura di Carlo Caporossi, 2005)
Annie Vivanti, Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska, (edizione 2011 di Otto/Novecento)
Referenze iconografiche: Annie Vivanti fotografata da Mario Nunes Vais, 1932. Collezione del FOndo Nunes Vais. Immagine in pubblico dominio.
Voce pubblicata nel: 2012
Ultimo aggiornamento: 2023