Pur rappresentando uno fra i più significativi contributi storiografici sulle istituzioni scolastiche italiane, la figura di Emilia Santamaria è rimasta sostanzialmente sconosciuta. In realtà la sua attività, nell’università, nel mondo dell’editoria, nella scuola, ebbe uno spessore che avrebbe meritato ben altra notorietà. Fu infatti educatrice, insegnante, formatrice, partecipe del dibattito sulla riforma della scuola, in particolare quella secondaria, e rappresentò una “cerniera” fra l’accademia e la scuola militante. Non secondaria fu anche la sua collaborazione nella gestione e nella produzione della casa editrice del marito.

Nata a Roma il 30 dicembre 1877, nel 1898 si iscrisse all'università, dove seguì i corsi di filosofia di Antonio Labriola, apprezzandone soprattutto l’antidogmatismo, e si laureò nel 1903 con una tesi sulla pedagogia tolstoiana. Fin dai primi anni del Novecento fece parte dell’associazione internazionale fra studenti Corda Fratres, che si batteva per l’unione dei popoli, dove conobbe Sofia Bisi Albini, letterata e femminista, e il modenese Angelo Fortunato Formíggini, che avrebbe poi sposato il 19 settembre 1906.

Nel 1904 vinse un concorso per il perfezionamento negli studi filosofici della Fondazione Corsi, ottenne la cattedra di pedagogia e iniziò a insegnare nelle scuole normali. Nel 1905 si laureò anche in lettere, con una tesi che diventò più tardi il libro L'istruzione popolare nello Stato Pontificio (1824-1870), in cui denunciava con forza come “un vero e proprio atto di rinuncia colpevole il trasferimento all’iniziativa privata delle congregazioni religiose di una delle più alte funzioni dello Stato, quella educativa”.

Nel 1906 fu a Genova e poi a Bologna; nel 1908 si stabilì a Modena con il marito e per tre anni insegnò pedagogia alla Scuola Normale femminile della città. Nel 1910 divenne segretaria della sezione modenese dell’Associazione nazionale per gli studi pedagogici, durante la presidenza del famoso pedagogista Ugo Pizzoli. Nel 1912 pubblicò L'istruzione pubblica nel Ducato Estense (1772-1860) e Lezioni di didattica (storia e geografia), sviluppando un'intensa attività attorno alla redazione de «L'Italia che scrive», rassegna bibliografica ideata e pubblicata dal marito, nelle cui pagine mostrò anche il suo interesse per la letteratura per l’infanzia. Durante la prima guerra mondiale fu infermiera in un ospedale da campo, mentre il marito, convinto interventista, combatteva come volontario; continuò comunque le sue ricerche e nel 1916 pubblicò Ciò che è vivo e ciò che è morto della pedagogia di Federico Froebel.

Trasferitasi a Roma, collaborò per molto tempo con la «Rivista pedagogica», diretta da Luigi Credaro e edita dal marito. Dai suoi articoli emerge con chiarezza la sua posizione innovativa per una didattica costruita su una solida base psicologica e proiettata verso l’emancipazione del bambino, in anni in cui la psicologia non aveva ancora raggiunto la formalizzazione come scienza.

Nel 1919, a quarantadue anni, adottò Nando, un bambino orfano di tre anni, e iniziò un diario delle proprie esperienze di madre.

Nel 1920 pubblicò La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX - parte prima e La mia guerra, una testimonianza personale sul conflitto mondiale, in cui propugnava un saldo concetto di Stato e un’educazione nazionale non aderente al sistema politico dominante. Su incarico di Luigi Credaro svolse a Trento compiti ispettivi nelle scuole femminili e tenne fino al 1923 corsi di formazione alle maestre giardiniere. Questo le consentì di entrare in contatto con le sorelle Agazzi, di cui già conosceva e apprezzava le scelte educative, e di stabilire con loro un rapporto di reciproca stima che sarebbe durato nel tempo.

Nel 1926 pubblicò la prima parte del Giornale di una madre sull'educazione di Nando fino ai nove anni di età e nel 1928 venne stampata l'ottava edizione del suo sillabario Prima lettura, che raggiunse le ottantasei mila copie.

Nel 1935 assunse l'incarico di redattore capo de «L'Italia che scrive», nel tentativo di salvare la casa editrice che versava in brutte acque. Nel 1938, dopo che il governo fascista ebbe approvato le leggi razziali, il Formíggini, ebreo non praticante ma iscritto alla Comunità Israelitica della sua città, compì l'estremo gesto di protesta, a lungo preparato, e si suicidò lasciandosi cadere dalla torre Ghirlandina di Modena. Appena tredici giorni prima, Emilia Santamaria gli aveva scritto:

La vita di una persona non consiste che in minima parte nelle contingenze esterne, molto di più in quello che si è lavorato e prodotto, nella stima e nell’affetto di chi vale, che cos’è questo parlare di ‘quando non ci sarò più’? Quello che hai perduto [si riferisce ai problemi economici del marito] non vale la metà di quello che ti è rimasto: noi. Non è giusto? La tua affezionatissima Emilia.

Pur provata dalla sua tragica scelta, Emilia Santamaria si prodigò in tutti i modi per difendere la memoria del marito. Non potendo far stampare alcun necrologio per il divieto del regime, comunicò la sua morte alle persone a lui più vicine con biglietti scritti a mano, in uno dei quali scrisse: “A.F. Formíggini editore maestro abbandona la terra lasciando ricordo imperituro di spirito libero, profondamente italiano, di dedizione assoluta alla coltura patria”. Temendo che i documenti dell’attività editoriale e della vita personale fossero sequestrati e probabilmente distrutti, nel rispetto della volontà del marito prese immediati accordi con il direttore della Biblioteca Estense di Modena e donò l’archivio familiare e quello della casa editrice, insieme a un corposo nucleo di materiale eterogeneo, fra cui la Casa del ridere, la raccolta di Formíggini di tutto quanto riguarda l’umorismo. Per la Biblioteca fece poi eseguire l’ironica epigrafe che Formíggini stesso aveva composto appositamente e che si trova ancora oggi nella Sala Cataloghi:

A.F. Formíggini/editore in Roma/Modenese di sette cotte/uno dei meno noiosi/uomini del suo tempo/nominò erede dei suoi archivi e della sua Casa del Ridere/la Biblioteca Estense/che con questa epigrafe da lui stesso dettata/ne tramanda ai posteri/il cordiale ricordo.

Nel 1941 il Ministero della Pubblica Istruzione, già in possesso di documentazione del suo arianesimo, dapprima chiese a Emilia Santamaria ulteriori prove sulle sue origini, poi la collocò a riposo forzato. Nel 1943 fu anche esonerata dalla libera docenza per non avere giurato fedeltà al regime fascista.

Finita la guerra, nel 1948 pubblicò la seconda parte del Giornale di una madre, sulla crescita del figlio fino al diciottesimo anno, e nel 1949 Adolescenti nella scuola, opera da cui emerge un’insegnante coerente e aggiornata, un’educatrice tutta proiettata verso i suoi alunni.

Citata da Gramsci in Letteratura e vita nazionale, Emilia Santamaria sostenne sempre che “accanto alla ‘pedagogia professata’ ci vuole la ‘pedagogia praticata’ e attraverso la storia della scuola si può identificare il grado di civiltà di una nazione”.

Morì a Roma il 14 aprile 1971, all’età di novantaquattro anni.

 

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Emilia Santamaria Formíggini

Sabrina Fava, Emilia Formíggini Santamaria: dagli studi storico-pedagogici alla letteratura per l’infanzia, Brescia, Editrice La Scuola, 2002

Carlotta Padroni, Pedagogia e storia della pedagogia nell’opera di Emilia Formíggini Santamaria, Tesi di laurea, Università di Roma “La Sapienza”, 1994

Roberta Pinelli, Dizionario biografico delle donne modenesi, Modena, Colombini editore, 2019

Dino Reolon, La pedagogia di E. Formíggini Santamaria come realismo spirituale, Pavia, Luigi Ponzio editore, 1965

Archivio Formíggini conservato presso la Biblioteca Estense di Modena

Voce pubblicata nel: 2019

Ultimo aggiornamento: 2023