Io non scrivo soltanto con la penna e col cervello: io scrivo con tutta me, vene, sangue, nervi, epidermide, capelli.

(Diario 5, 18 febbraio [1955])

La tenace fedeltà di Gianna (Giovannina) Manzini alla scrittura inizia precoce, a poco più di vent’anni. Nasce il 24 marzo 1896 nell’«ilare e ansiosa» Pistoia (Cielo di Pistoia), da Leonilda Mazzoncini – di famiglia borghese – e Giuseppe Manzini – orafo di origini modenesi che subì non poche condanne per il suo orientamento anarchico, fino all’esilio a Cutigliano nel 1921, dove trovò la morte il 29 settembre 1925 per mano fascista.
Dopo la sofferta separazione dei genitori e gli studi magistrali, sul finire del 1914 si trasferisce con la madre a Firenze.

La città la innamora:

La scoperta di Firenze coincise con l’inizio della mia giovinezza (16 anni). La scoperta della biblioteca naz. (ricordo che dovetti dire una bugia su gli anni: me ne aumentai 2) fu come avere a disposizione tutti i continenti. Gli studi cosidetti superiori che autonomia, che esultanza, che formidabile promozione a una vera età maggiore. Di quel periodo: finestre, glorie delle finestre: quelle della scuola, quelle della mia casa, tutte le finestre dalle quali potevo contemplare sia Firenze che il cielo. E l’Arno. Amicizie. Letture. Incontri con autori moderni. Roba extra-scolastica. […] La facciata del duomo su cui misuravo la mia vera temperatura. Vale a dire capivo se ero innamorata o no […]. Infine l’amore: un ragazzo poco maggiore di me (4 anni maggiore) che poi diventò mio marito.

(Diario 6, Natale 1968)

Si laurea nel 1920 in letteratura italiana alla Facoltà di Magistero dell’Istituto di Studi Superiori, e inizia a frequentare gli ambienti culturali della città grazie al giornalista della «Nazione» Bruno Fallaci – zio di Oriana – che sposa il 20 dicembre. Fallaci introduce la penna di Manzini sul quotidiano fiorentino, con cui collabora dalla metà del 1920 (ma la sua prima prova narrativa risale al 1915, sulla «Rivista per la gioventù femminile italiana») al 1928, anno del suo esordio.
Tempo innamorato
è un romanzo modernista, che riabilita la diegesi al di là del frammento e della prosa d’arte, preservando il magistero stilistico di Giuseppe De Robertis e di Emilio Cecchi, quindi la lezione dei crepuscolari, di D’Annunzio e Tozzi, Proust e Gide. Le novità (la sostituzione del tempo cronologico col «tempo innamorato» dell’interiorità, del narratore onnisciente con uno omodiegetico a focalizzazione interna) le valsero il plauso di Montale, Cecchi, Giansiro Ferrata, il quale la affianca a Katherine Mansfield.

Ma la scrittrice europea cui più si avvicina la sua sensibilità è certamente Virginia Woolf, scoperta all’inizio degli anni Trenta leggendo Mrs. Dalloway: a lei deve il suo «accertamento di vocazione», l’«alternarsi felice tra invenzione soggettiva e aderenza a una realtà tutta tangibile», «consegnandosi insomma tutta, in questo cimento dello scrivere che sembra promuovere un attuarsi incessante della vita» (La lezione della Woolf). L’apertura sovranazionale della sua opera le favorì l’accoglienza nella rivista «Solaria». Dal gruppo, comunque, mantenne una certa autonomia intellettuale, col costante obiettivo di fare dell’arte «uno strumento per cercare vita dietro la vita» (Autoritratto involontario).

Nel 1929 raccoglie un buon numero di racconti usciti su «La Nazione» in Incontro col falco. Tre anni dopo esce Boscovivo, sfogo creativo di una «grave crisi», il divorzio con Fallaci: per penetrare «nel cuore delle cose», Manzini sceglie adesso di «calarsi anche nelle creature più elementari», animali e piante, unico specchio da cui studiare il mondo (intervista a Fava Guzzetta). Ma la crisi ha ricadute pure sul piano narrativo, lo si vede in Casa di riposo (romanzo da fare) (in Un filo di brezza, 1936), ispirato ai suoi soggiorni a Villa Solaia, presso Siena, ospite degli amici Elena e Leone Vivante, e ambientato in un istituto di suore. È un’ipotesi di lavoro, di cui Manzini, nei panni di scrittrice-attante, abbozza trama, ambienti, figure, secondo quel modulo metanarrativo cui era particolarmente affezionata.

Nel frattempo, aveva conosciuto il critico romano Enrico Falqui, che di lì a poco diverrà il suo compagno e con cui si trasferisce nella capitale, a metà 1935. Nello stesso anno la Reale Accademia d’Italia le elargisce un premio «per la sua opera di narratrice ricca di un delicato senso della realtà intima».

Roma a primo impatto la indispettisce:

la città stessa, come spettacolo, toglieva me a me medesima. […] Fu poi la bellezza a conquidermi; e, al solito, intendere ed amare divenne una cosa sola; e anche significò naturalmente, adattarmi, modificarmi, aderire: prima con uno struggimento di rimpianto e di nostalgia, poi con un vittorioso abbandono.

(Lettera all’Editore)

Sono anni prolifici. Di amicizie che si corroborano, innanzitutto, come testimonia anche la corrispondenza nel suo archivio: Maria Luisa Astaldi, Anna Banti, Carlo Bo, Leonetta Cecchi Pieraccini, Emma D’Avack, Alba de Céspedes, Elsa de’ Giorgi, Libero de Libero, Alfonso Gatto, Alis e Giorgio Levi (presso la cui casa a Cortina è spesso ospite in estate), Mario Luzi, Paola Masino, Ada Negri. E i coniugi Bellonci con gli Amici della domenica del Premio Strega, cui Manzini partecipa nel 1947 e nel 1953, uscendone purtroppo sconfitta.

Come ai tempi di «Solaria», così negli anni romani prosegue la sua ricerca in solitudine, fuori dall’eccessiva mondanità e dalle mode letterarie. Il 1940 è un anno di svolta: Mondadori diventa il suo editore principale e pubblica nella collana “I Prosatori dello Specchio” la raccolta di racconti più matura, Rive remote. Nel 1941 l’antologia Venti racconti (con introduzione di De Robertis, L’arte della Manzini) racchiude l’evoluzione della sua scrittura, in base a quell’abitudine di riproporre gli stessi testi (variati o meno) in raccolte diverse, per esigenze sia poetiche sia economiche.

Al 1945 risale il suo romanzo più sperimentale, Lettera all’Editore, che incornicia nella struttura di una missiva scritti elaborati dal 1934 e porta a compimento la riflessione sui meccanismi del testo, unendo frammenti narrativi a osservazioni metadiegetiche. Nello stesso anno avvia la direzione della rivista «Prosa», uscita in soli tre fascicoli fino al 1946: gemella di «Poesia» diretta da Falqui, era orientata a svecchiare la narrativa italiana in prospettiva internazionale.
Prosegue inoltre, dagli anni Trenta, i suoi articoli come cronista di moda con gli pseudonimi Vanessa e Pamela, «facchinaggi», li chiama più volte, giacché utili solo al sostentamento economico, alla stregua della narrativa breve, avendo Manzini da sempre l’ambizione al romanzo. Dal 1947 inizia a scrivere il primo di sei quaderni, che la accompagneranno sino alla morte, a un tempo diari intimi e di lavoro.

Manzini imbocca ora una nuova direzione: da Forte come un leone (1947) a Ho visto il tuo cuore (1950) a Il valtzer del diavolo (1953) semplifica lo stile pomposo che tanto piaceva alla critica ma poco al grande pubblico, che la apprezzerà solo dal 1956, quando il romanzo La sparviera (collana “Narratori italiani”) darà prova di sintassi e trama più lineari, personificando in un essere a metà tra uomo e animale la tosse che la attanaglia fin da bambina (al corpo e alla sua precarietà darà risalto nella raccolta del 1958, Cara prigione).
L’opera le valse il Premio Viareggio e la liberazione da certi giudizi frivoli: «sentirmi dire “squisita” e “raffinata”, mi fa un bruttissimo effetto. E zitta zitta faccio faville, come un gatto carezzato contro-pelo» (Parole povere), proprio lei che di gatti era un’amante premurosa.

Attenta alle nuove forme di comunicazione, nel 1953 avvia con la Rai un’inchiesta radiofonica sui sogni nella narrativa italiana, con il proposito di farne in seguito un libro, l’Almanacco dei sogni, mai concluso.

Seguono i “bestiari” (Animali sacri e profani del 1953, poi nella più ampia Arca di Noè del 1960), necessari a rintracciare tramite gli animali l’innocenza preadamitica del cosmo, e i ritratti di intellettuali (Ritratti e pretesti del 1960, ricompresi nell’Album di ritratti del 1964), cui va aggiunto l’Autoritratto involontario che introduce la monografia sul pittore El Greco per i “Classici dell’Arte” Rizzoli (1969).

La conquista di «una stanza tutta per sé» nel 1957, col trasferimento da viale Giulio Cesare nella più spaziosa casa di via Lovanio, le garantisce maggiore agio nel lavoro. Dopo i romanzi Un’altra cosa (1961), che tenta di esorcizzare gli angusti meccanismi del sistema editoriale, e Allegro con disperazione (1964), che molto si avvicina alle sperimentazioni del nouveau roman francese, e la raccolta Il cielo addosso (1963), si congeda dalla letteratura con uno scavo nella memoria.
Nel 1966 aveva iniziato Ritratto in piedi, sul padre, che Mondadori accoglie nel 1971 nella collana “Scrittori italiani e stranieri” segnando il definitivo successo di Manzini, che si aggiudica, prima donna, il Premio Campiello. Due anni dopo escono i quattro racconti di Sulla soglia, il cui eponimo è dedicato alla madre.

Per una crisi cardiaca, la fragile Manzini muore a Roma, il 31 agosto 1974, cinque mesi dopo Falqui. Della sua memoria sono custodi le carte, oggi conservate alla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori a Milano, all’Archivio del Novecento della Sapienza Università di Roma, alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Gianna Manzini

Lia Fava Guzzetta, Manzini, Firenze, La Nuova Italia, 1974.
Scrittrici e intellettuali del Novecento. Gianna Manzini, a cura di Francesca Bernardini Napoletano e Giamila Yehya, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2005.

L’Archivio di Gianna Manzini, a cura di Cecilia Bello Minciacchi, Clelia Martignoni, Alessandra Miola, Sabina Ciminari, Anna Cucchiella e Giamila Yehya, Roma, Carocci, 2006.

Margherita Ghilardi, Manzini, Giovannina, in Dizionario biografico degli italiani (2007), disponibile qui.

Le riedizioni più recenti

Arca di Noè, Roma, Rina edizioni, 2023.

Ritratto in piedi, Milano, Mondadori, 2024.

Gli studi più recenti

Sabina Ciminari, Lettere all’editore. Alba de Céspedes e Gianna Manzini, autrici Mondadori, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2021.

Antonio D’Ambrosio, Autoritratto (in)volontario. Per un profilo epistolare di Gianna Manzini, in «Oblio», a. XIII, n. 48, 2023, pp. 115-134.


Voce pubblicata nel: 2025