Il nome di Leila Corbetta, autrice di saggi, conferenziera e poeta, compare tra i vincitori del premio Lerici-Pea nel 1985 con una motivazione che segnala in questi termini l’importanza della sua opera:
«La conquista più alta di un poeta deriva dall’impiego costante di strumenti, in apparenza comuni, che sono la chiarezza e la semplicità per esprimere i sentimenti, acquisiti anche da segrete vie, che vivono nell’animo ed emergono, spesso improvvisi, quali folgorazioni. Con il Canto finale, Leila Corbetta ce ne dà una esemplare conferma. La lirica ci ha indotto alla rilettura di Lamento per l’est e per l’ovest e L’oro del crepuscolo: due sillogi edite, rispettivamente, nel 1973 e nel 1979. Sono pietre miliari di un poeta destinato a restare, al vaglio del tempo, fior di farina». (in Lerici-Pea. Premio di poesia anno trentaduesimo, Carpena, Sarzana, 1985, p. 21).

La commissione giudicatrice che stilò il giudizio era formata da Renato Barberi, Marco Carpena, Carlo Laurenzi, Silvano Masacci e Giovanni Petronilli, ma era stato proprio Carpena, l’originale editore di Sarzana che nel 1954 aveva fondato il premio con Renato Righetti, Giovanni Petronilli ed Enrico Pea, a credere nella forza e nella grazia del discorso poetico della Corbetta pubblicando le sue due ultime raccolte, Lamento per l'est e per l'ovest (Carpena, Sarzana, 1973) e L’oro del crepuscolo (Carpena, Sarzana, 1979) insieme con il corposo volume con le Letture e incontri (Carpena, Sarzana, 1983) che raccoglie i saggi critici dispersi sulle riviste e i testi delle conferenze tenute nel corso di trent’anni ai Lyceum di Milano (in via Manzoni n. 43) e di Genova. Dunque non solo poeta ma anche autrice di prosa e, negli anni ’60, collaboratrice della rivista «La lettura del medico. Rivista letteraria mensile» sulla quale sono uscite molte sue brevi prose che firmava con lo pseudonimo di Ulisse Cantalupo. Infine, bisogna ricordare che nel 1954 Leila Corbetta fu una dei primi in Italia a segnalare la poesia di Dylan Thomas con un saggio che oggi si può leggere proprio in apertura del volume con le Letture e incontri del 1983 (pp. 15-55).

La scrittrice dividerà la sua vita tra Milano, dove è nata il 13 settembre del 1918 (e non nel 1921 come si legge in alcune sue rarissime biografie) e la città di Chiavari dove la morte la coglierà di sorpresa «sul tratto di spiaggia libera adiacente ai bagni “Toni”» il 24 giugno 1994 a causa di un infarto («Il Secolo XIX», 25 giugno 1994).
La Corbetta si era infatti trasferita nella città ligure, in un’abitazione di via Devoto, dopo la pensione; ma già negli anni precedenti era solita trascorrere le sue estati tra Chiavari, Camogli o Lavagna dove aveva stretto amicizia con la scrittrice Elena Bono. Dalla corrispondenza tra le due autrici, conservata a Chiavari nell’Archivio della Società economica, risulta che a maggio del 1953 la Corbetta, dopo aver letto la silloge della Bono, I galli notturni (Garzanti, Milano, 1952), ne sia rimasta particolarmente affascinata sentendo con lei una profonda affinità di pensiero e di ricerca poetica.
A metterle in contatto è il prof. Francesco Pedrina che quell’anno segnala la raccolta di liriche della Corbetta, Babele (1952), al concorso letterario dedicato dalla città di Livorno al poeta Giovanni Marradi. Pedrina fornisce a Leila Corbetta l’indirizzo di Elena Bono e la donna le scrive dando l’avvio alla loro lunga amicizia, prima soltanto epistolare, poi – a partire dall’estate del 1957 – più confidenziale, fatta di scambi, incontri e reciproco sostegno.

A Milano Leila Corbetta era stata allieva del professore, poeta e latinista, Carlo Saggio (Milano, 1897 – Legnano, 1987): è lui che, con una lezione sul poeta Catullo (Il libro di Catullo, testo e traduzione di Carlo Saggio, Alpes, Milano,1928) le ispira il discorso critico contenuto nell’opuscolo Civiltà del dolore (Il Girasole, Roma, 1950). Su di lui la Corbetta dirà infatti:
«mi ha fatto sentire il dolore come il superamento d’ogni umana passione in una sfera dove sopravvivono i valori eterni» (Sulla vita e l'opera di Carlo Saggio, a cura di Carla Porta Musa, Leila Giallella Corbetta, Edizioni della rivista Como, [s.l.], [s.d.], p. 38).

Il 9 dicembre del 1940 la scrittrice sposa a Milano Ezio Giallella e nel dopoguerra frequenta il Circolo Diogene di via Brera che radunava «ogni domenica mattina – racconta la Corbetta – noi, giovani d’allora, alla scoperta del teatro straniero contemporaneo, dopo il silenzio fascista. E ci arrabbiavamo, gridavamo e ci esaltavamo entusiasti, nel contraddittorio che ci veniva concesso con quelli appena maggiori di noi, Giorgio Strehler e Paolo Grassi, Virgilio Tosi e Orazio Costa» (L. Corbetta, Letture e incontri, cit., p. 182). Da quel circolo nacque poi il Piccolo Teatro di Milano fondato il 14 maggio 1947 da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi.

A completare la riflessione critica di Leila Corbetta, inaugurata da Civiltà del dolore, bisogna inoltre ricordare i due saggi usciti a novembre/dicembre del 1945, il primo con il titolo Essenzialismo e frammentarismo nella poesia contemporanea (Quaderni Mercuzio, La Cartografica, Milano, s.d.) a cui segue – nella stesso opuscolo – un secondo saggio su Paul Gauguin o l’essenzialismo nella pittura (che uscirà anche sulla rivista «Valori», a. 1946).

La prima raccolta poetica Incantesimo del biancospino (La Prora, Milano, 1949) è invece del 1949: pubblicata con un Proemio di Carlo Saggio, nello stesso anno otterrà una segnalazione al Premio Viareggio. La raccolta non risente ancora delle riflessioni contenute nel saggio dell’anno successivo sulla persistenza e il significato del dolore nella letteratura occidentale, ma è già esplicito e presente quel sentimento di religiosa dedizione verso il mondo della natura e dell’eterno che si materializza nelle piccole, umili espressioni della vita.

La seconda raccolta, Babele (Edizioni del Girasole, Rieti-Roma, 1952) è invece attraversata da una religiosa drammaticità poiché contiene già nel titolo «la cruda rappresentazione dei nostri errori: un quadro sconsolante in cui la poesia evoca, attraverso rapidi scorci, la tragedia della presunzione e del disamore, la spaventosa avventura della follia» (Pier Luigi Mariani, Prefazione a Babele, cit., p. 7) nella convinzione che «il dolore sia la linfa della vita […] forza motrice verso il bene» (L. Corbetta, Civiltà del dolore, cit., p. 37).
La sua terza silloge, Pianura del tempo (introduzione di Gian Maria Mazzini, Editoriale Kursaal, Firenze, 1957) la confermerà invece nel ruolo di poeta tanto che Enrico Falqui inserirà due sue liriche (Pianura del tempo e L’avventura) nella seconda edizione, riveduta e aumentata, dell’antologia La giovane poesia (Casa Editrice Colombo, Roma, 1957, pp. 280-283). Eppure, nonostante la critica l’avesse oramai consacrata alla quarta generazione dei poeti del dopoguerra, Leila Corbetta ci teneva a dichiarare la sua estraneità alle definizioni di scuola o di tendenza «fedele soltanto a ciò che, nel tempo, istinto o vocazione le fanno ritenere essere la sua voce più “necessaria”» (risvolto di copertina in Pianura del tempo, cit., 1957).

La quarta raccolta, I cavalli erano quasi scomparsi (Fantoni artegrafica, Venezia, 1964), è segnata invece dall’amicizia con gli scrittori Marcello Venturi e con la moglie Camilla Salvago Raggi (scomparsa ad aprile del 2022): sarà proprio Venturi a scrivere la prefazione a quest’ultimo volume e a definire la Corbetta una scrittrice di «raffinata qualità», aliena alle mode e capace di trasfigurare il dolore dell’uomo, «la sua inquietudine, il suo disordine, la sua angoscia» in una «dimensione verticale» (L. Corbetta, I cavalli erano quasi scomparsi, cit. p. 7).

Un discorso poetico compatto che attraversa sia la riflessione critica sia la produzione poetica, fino alle due ultime sillogi del ’73 e del ’79 e che si conclude coerentemente con quel Canto finale, premiato dalla giuria del Lerici-Pea nel 1985, in cui il dolore e la malinconia si stemperano infine nella presenza delle piccole cose, custodi del divino:
«Così soltanto dopo aver conosciuto
i libri più antichi e difficili
si impara ad amare le parole semplici.
Si riesce dolcemente a dire
tu ed io, la nostra casa
quel prato, la nostra infanzia
la nostra inevitabile morte
e forse Dio…
e si sa che queste
sono le sole parole eterne» (in Lerici-Pea, 1985, cit., p. 23).

Una scrittrice forse troppo frettolosamente dimenticata ma che Elena Bono seppe ricordare come «una grande poetessa purtroppo non ancora adeguatamente riscoperta» (Intervista di Graziella Bernabò a Elena Bono in «Resine», n. 124, a. XXXI, 2° trimestre 2010).



Voce pubblicata nel: 2023

Ultimo aggiornamento: 2024