Nel mondo artistico romano dei primi decenni del ‘900 era conosciuta come Deiva De Angelis, col cognome del marito Alfredo, avvocato di origine pugliese con cui si sposò nel 1912. Ma all’inizio del secolo, quando probabilmente giunse nella capitale dalla nativa Umbria per cercare fortuna, si faceva chiamare Deiva Terradura, col cognome materno. Per l’anagrafe invece era Deiva Maria Cristina Alunni Riposati, un doppio cognome ‒ quello paterno ‒ sempre nascosto e lasciato solo sui certificati e sui documenti. Un mistero il motivo per cui cercò di evitarlo, ma questo è solo uno dei tanti che circondano la sua vita privata e artistica, ancora oggi non facilmente ricostruibile a causa di quei molti cognomi, trascritti non sempre in modo preciso, e della dispersione di parte del suo lavoro.
Tanti anche gli equivoci nelle fonti biografiche, ripetuti negli anni, nei decenni, che hanno pubblicato supposizioni scambiandole per certezze. Solo i documenti anagrafici in possesso di un discendente, il dottor Oscar Terradura Vagnarelli che me li ha molto gentilmente mostrati, hanno permesso di costruire qualche certezza in più su un’affascinante protagonista dell’arte moderna.

Straordinaria e talentuosa pittrice, Deiva è stata anticonvenzionale nelle scelte e nei comportamenti, morta in povertà ancora giovane e presto dimenticata.
Era figlia di Pasquale Alunno (o Alunni, come spesso riportato nei certificati), cognome che in Umbria veniva assegnato ai trovatelli; il secondo cognome Riposati fu aggiunto quando il piccolo orfano venne adottato. Pasquale era bracciante mentre la madre, Clotilde Terradura classe 1853, apparteneva a una famiglia di mugnai della zona intorno Perugia.
Non più giovanissimi si sposarono con rito religioso nel 1883 e una seconda volta con quello civile, nel 1887; solo allora poterono riconoscere come loro figlia legittima la piccola Deiva, nata il 16 luglio 1884 probabilmente a Piccione, una frazione di Perugia, nella cui parrocchia fu battezzata e inserita nel Libro delle anime insieme ai genitori. Fino al 1888 il nucleo familiare risulta vivere stabilmente lì, poi di loro si perdono le tracce, fino al 1891 quando riappaiono nei registri parrocchiali del quartiere S. Antonio di Perugia.

La vita non fu facile, Pasquale si arrangiava con lavori umili ‒ il facchino, l’ombrellaio ‒ e il guadagno doveva essere modesto e incerto se nel 1898, anche se solo per quell’anno, l’intera famiglia fu inserita nei registri di povertà; dal 1899 invece più nessuna notizia.
Non si sa quando Deiva abbia lasciato l’Umbria alla ricerca di un destino migliore e, soprattutto, deciso da lei; l’ipotesi è che sia giunta a Roma all’inizio del Novecento, probabilmente da sola, facendosi chiamare Deiva Terradura e con poche prospettive se non quelle di vendere mazzetti di violette a piazza di Spagna, almeno così riferiscono alcune testimonianze. Leggenda o realtà, in un articolo del 1925 Anton Giulio Bragaglia ha raccontato che la giovane divenne la modella dell’artista William Walcot il quale, in modo del tutto casuale, scoprì le sue doti artistiche.
Secondo quanto scritto da Franco Cremonese nel 1960, il pittore e la sua modella partirono per l’Europa ‒ Parigi, Londra ‒ in un viaggio che per Deiva si trasformò in un percorso di formazione artistica, durante il quale visitò i più importanti musei e si impossessò della forza del colore.

Non è facilmente databile il suo rientro nella capitale, ma un certificato del 1908 attesta il definitivo trasferimento da Perugia a Roma; come sia vissuta e chi abbia frequentato resta ignoto almeno fino al 1912, quando sposò l’avvocato Alfredo De Angelis. Il matrimonio fu di breve durata perché, come si legge in testimonianze successive, Deiva era desiderosa di libertà e insofferente alla vita matrimoniale. Nella scarsità di notizie una sola cosa è certa: col nome di Deiva De Angelis, e non più Terradura, nel 1913 fece il suo esordio nel mondo artistico romano, trovandosi proiettata nel clima effervescente e innovativo della Secessione romana e partecipando alla prima Esposizione Internazionale d’arte al Palazzo delle Esposizioni di Roma e alla II Esposizione internazionale femminile di Belle Arti a Torino.

Nella sua vita due figure appaiono centrali: il pittore Cipriano Efisio Oppo, più giovane di lei di cinque anni e legato agli ambienti d’avanguardia, col quale visse un’intensa relazione amorosa e professionale, e Anton Giulio Bragaglia, futurista, regista e scrittore, nonché fondatore dell’omonima Casa d’Arte in via Condotti, suo sincero ammiratore ed estimatore.
Tranne nel periodo in cui visse con Oppo in uno degli studi allestiti nel parco di villa Strohl-Fern, rifugio e luogo d’elezione per molti giovani artisti della Secessione romana, Deiva restò nell’appartamento in via Angelo Brunetti 35 a pochi passi da piazza del Popolo, e quello fu per lei abitazione e atelier: dal terrazzo guardava e dipingeva i tetti e le cupole di Roma, i vasi di fiori, i panni stesi ad asciugare, la madre anziana intenta a cucire, che visse con lei dal 1912. Quando non era in casa, il suo studio diventava la campagna romana dove si avventurava con tavolozza e cavalletto.

Per Deiva la pittura era flusso vitale, trionfo di colore, pura gioia: fu lo stesso Oppo, in un articolo del 1916, a riconoscere nella sua ricerca cromatica un forte valore lirico che la accomunava alla dimensione spirituale della musica in una sorta di corrispondenza espressiva.
Fu invece Anton Giulio Bragaglia a definirla «un ottimo cervello maschio», una «modernissima colorista» capace di esprimere «la sua vigorosa schiettezza di artista indelebilmente», «un tipaccio» che però «intellettualmente funzionava bene, selvaggia come una contadina raffinatasi a Londra».

Il loro fu rapporto professionale e umano saldo. Se Deiva trovò in Anton Giulio un alleato, Bragaglia scoprì in lei le doti di un’arguta e brillante consigliera: «[…] s’intendeva di pittura come c’è dato raramente di sentire. ‒ ha scritto ‒ Confesso che a me stesso la guida di Deiva ha giovato enormemente: le osservazioni di mestiere ch’ella mi indicava, m’hanno scoperto il sistema di critica vero […]. Per un momento Deiva contò moltissimo nei giudizi poiché influenzava le tendenze della critica come le correnti della pittura». Presso la Casa d’arte Bragaglia Deiva tenne la sua prima personale nel 1920, cui seguirono altre mostre collettive e la collaborazione con la rivista Cronache d’Attualità, legata alla Casa d’Arte.

La carriera cominciava a decollare e nel ‘21 Aldo Di Lea su Cronache d’attualità scrisse che De Angelis era «nata per dipingere» e avrebbe presto espresso tutte le «più nobili manifestazioni del suo pensiero». Invece di tempo, per avere ulteriori conferme da quel talento prodigioso, ne restava poco. Deiva si ammalò di un tumore che non le lasciò scampo e la fece soffrire molto. Come ha testimoniato Bragaglia, in un articolo commemorativo nella primavera del 1925, «è stata malata otto mesi, mantenuta a spese dei pittori di Roma.
Le occorrevano cento lire al giorno soltanto per i narcotici». Aveva sempre dato poca importanza al lato economico della sua professione, chi l’ha conosciuta ha raccontato che vendeva i suoi quadri per poco, quando non li regalava o li lasciava nei cascinali della campagna romana dopo una giornata di lavoro con pennello e tavolozza. Fu costretta a svendere le opere per comprare le medicine con cui trovare un po’ di tregua dal dolore.
Deiva morì il 19 gennaio 1925 e non il 24 febbraio, come riportato in un articolo di Franco Cremonese e come è stato riproposto nelle biografie successive: lo attesta il certificato di morte che mi ha mostrato il pronipote Oscar Terradura.

Nonostante nei testi si parli di vicinanza emotiva da parte di molti colleghi, pronti a una colletta per far fronte alle spese funebri, le informazioni datemi dagli uffici del cimitero monumentale del Verano di Roma raccontano un’assoluta solitudine. La bara di Deiva De Angelis rimase in deposito per poco meno di tre anni quando, d’ufficio, fu inumata in un loculo. Scaduti i dieci anni, i suoi resti vennero riversati nell’Ossario comune. Può essere di consolazione il fatto che alla Terza Biennale Romana del 1925 furono esposti postumi tre suoi lavori e che, nel 1927, la XCIII Esposizione di Belle Arti della Società Amatori e cultori ricordò Deiva con quattro dipinti esposti nella Sala 27.

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Deiva De Angelis


Aldo Di Lea, Deiva De Angelis, in “Cronache d’Attualità”, n.V, gennaio 1921

Anton Giulio Bragaglia, L’arte di Deiva De Angelis, in “La Stirpe”, a. III, n.4-5, Roma, aprile-maggio 1925

Franco Cremonese, Deiva De Angelis, la pittrice di Via Brunetti cominciò col fare la modella, in “Il Giornale d’Italia”, 15-16 marzo 1960
Duccio Trombadori, Francesca Romana Morelli, Lucia Fusco, Deiva De Angelis 1985-1925. Una “Fauve” a Roma, catalogo della mostra, Roma 3 febbraio – 5 marzo 2005

Deiva de Angelis - Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani)

Via Angelo Brunetti n° 35. La casa della pittrice Deiva de Angelis - vitamine vaganti

Passeggiata di Ripetta n°17/A. La casa in cui morì la pittrice Deiva de Angelis - vitamine vaganti


Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nelle scuole superiori, si occupa ora di storia e cultura delle donne e di toponomastica. Cofondatrice dell’associazione Toponomastica femminile, ha partecipato alla stesura dei volumi Roma. Percorsi di genere 1-2 (Iacobelli, 2011 e 2013), La differenza insegna (Carocci, 2014), Grammatica e sessismo 2 (Universitalia, 2015), Le Mille (Navarra, 2016), Segnali familiari. Immagini e immaginario della/e famiglia/e nei percorsi urbani (Blonk, 2019), La famiglia italiana raccontata dai cognomi. Storie di rimozioni (Blonk, 2022). Ha pubblicato il libro Le Medici (Storie di Toponomastica femminile, 2021) e scritto con Maria Pia Ercolini Il femminile dalla famiglia allo spazio pubblico (Il Mulino, 2019). Collabora dal 2019 al progetto Calendaria di Toponomastica femminile.

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Voce pubblicata nel: 2023

Ultimo aggiornamento: 2024