Le notizie riguardanti la nascita e l'infanzia di Pazienza Porcia sono alquanto scarne. Si conosce l'anno di nascita, il 1793, ma non il giorno e nemmeno il luogo, che potrebbe essere probabilmente un paesino vicino a Graz, Senošetz, dove la famiglia Porcia risiede abitualmente. Pazienza è l'ultimogenita di nove sorelle e il suo nome lo ha esclamato il padre al momento della nascita, deluso e ormai rassegnato a non avere un erede maschio. Il padre è il principe Francesco Serafino Porcia (1755-1827) i cui possedimenti, terreni, ville, palazzi e castelli disseminati dal Friuli alla Carinzia e alla Stiria, ne fanno uno degli uomini più facoltosi dell'Impero Austriaco. Ma a dispetto della ricchezza vive modestamente ispirandosi a un cristianesimo austero e bigotto in nome del quale dispensa in ogni occasione severi precetti morali e si dichiara “facchino della Provvidenza.” La moglie, baronessa Barbara von Jöchlingen (1755-?), è un personaggio piuttosto controverso, con una certa propensione all'alcolismo.

Nel 1806, la tredicenne Pazienza, esile e minuta, ma assai aggraziata ed elegante, soggiorna a Venezia presso la marchesa Orintia Romagnoli Sacrati che nella propria casa ospita fanciulle di famiglia aristocratica a lei affidate per apprendere come comportarsi in società, come ricevere, come diventare un prezioso ornamento degli illustri mariti a cui sono destinate. Venezia, anche se non è più la potenza economica e commerciale dei secoli passati, con i suoi teatri, i caffè, le sale da gioco, le case di piacere, i palazzi nobiliari dove tra feste e balli il carnevale non finisce mai, attira da tutta Europa aristocratici e ricchi borghesi presso i quali Orintia ha buone possibilità di “piazzare” le sue pupille e, ovviamente, ricevere il giusto compenso per l'intermediazione. Il conte Lodovico Laderchi di Faenza in passato ha già usufruito dei “servizi” della marchesa, che gli ha accasato la figlia Maria Teresa con il conte Pietro Fontana di Spoleto, e ora pensa che potrebbe ancora avvalersene. Infatti, dopo aver diseredato il primogenito Giacomo che ha sposato una donna borghese ed è andato a vivere in un'altra città, le speranze di Lodovico sono riposte nel figlio minore Pietro, diciannovenne, per il quale ha bisogno di trovare una moglie di famiglia aristocratica che assicuri una discendenza adeguata al prestigio dei Laderchi e, condizione di non minore importanza, una ricca dote sulla quale conta per risanare le sue dissestate finanze.

Nel gennaio 1807, Lodovico, assieme alla moglie e al figlio, giunge a Venezia dove la marchesa, su sua richiesta, ha organizzato l'incontro con i Porcia. Dopo che Pazienza ha dato il consenso “spontaneo” alle nozze con Pietro, il conte e il principe avviano le trattative per la dote e si accordano sia sulla cifra sia sui termini di pagamento. Concluso “l'affare”, di cui la celebrazione del matrimonio è solo una formalità necessaria, i genitori ripartono, mentre i due promessi rimangono a Venezia in attesa della dispensa ecclesiastica obbligatoria a causa della giovane età della fidanzata. Così hanno la possibilità di frequentarsi e approfondire la conoscenza, che riserva non poche sorprese all'ingenuo Pietro, appena uscito da un collegio religioso e del tutto ignaro delle cose del mondo. Pazienza invece, seppure giovanissima, si muove con molta disinvoltura tra salotti e feste, poiché la marchesa le ha sempre lasciato una certa libertà, convinta che ciò contribuisca alla sua formazione. Le perplessità di Pietro aumentano ulteriormente quando a Venezia giunge la sorella Beata, di 23 anni, vedova. Beata è bella, disinibita e libera. Ama le feste, i balli in maschera, le avventure galanti e l'alcol. Non rinuncia al piacere per salvaguardare il suo buon nome e trascina con sé Pazienza, che non sembra affatto turbata dal suo modo di vivere, al punto che Pietro scrive preoccupato a casa: “... per quanto sia buona la mia Pegì, i continui mali esempi potrebbero essergli di gran pericolo...” A fine marzo giunge finalmente la dispensa e i due fidanzati possono unirsi in matrimonio il 25 aprile 1807, nella chiesa di San Geremia a Venezia. Per l'occasione Orintia pubblica un'elegante anacreontica come epitalamio. Infine i neo sposi partono per Faenza dove giungono la sera del 1 maggio.

Non è dato sapere con quale stato d'animo Pazienza, appena quattordicenne, si appresti ad iniziare la vita coniugale in una città e in un ambiente sconosciuto. Passata bruscamente dalla mondanità festaiola di Venezia alle lente e noiose giornate faentine, senza amiche, nel maestoso e freddo palazzo di famiglia o nella calma piatta di Prada, la località di campagna dove i Laderchi possiedono una villa, col ricordo ancora vivo della travolgente spensieratezza di Beata a cui non sa supplire un marito buono e devoto ma privo di fascino e di passione, è naturale che Pazienza venga assalita dalla nostalgia. Così, insoddisfatta e malinconica, durante qualche rara occasione mondana, si invaghisce di un giovane frequentatore di casa Laderchi e in breve tempo tra i due ha inizio una relazione favorita da alcune servette, forse le uniche amiche di Pazienza, disponibili a scambiare i loro messaggi e a coprire gli incontri clandestini. Ma il segreto è destinato a durare poco e ben presto la storia diventa di pubblico dominio con grave discapito del nome dei Laderchi. A cui si aggiunge anche l'inizio di una gravidanza con tutti i sospetti che ne conseguono sulla paternità. È passato meno di un anno e il matrimonio è ormai in crisi profonda. Con alcune lettere il principe padre viene informato del tradimento di Pazienza - ora degradata da “principessa” a “signorina” - dei messaggi compromettenti scambiati tra lei e “l'infame Egisto”, della confessione stessa della giovane che però non mostra alcun segno di ravvedimento, chiusa in uno sprezzante mutismo alternato a crisi di pianto, e ostinata nel rifiutare il cibo con possibili rischi per la gravidanza in corso. La soluzione che i Laderchi prospettano al principe è il ritorno di Pazienza alla casa paterna affinché l'austero e religiosissimo genitore possa metterla sulla retta via e richiamarla ai suoi doveri di moglie, “l'obbligo suo”, e di futura madre. La risposta del principe è netta: Pazienza deve essere rieducata con un'assidua pratica religiosa: messe, orazioni, prediche et similia. Ed è un compito di cui si deve far carico il marito.

La tensione tra le famiglie si attenua momentaneamente quando il 12 agosto 1808 nasce in perfetta salute un piccolo Laderchi che viene chiamato Francesco in onore del nonno materno. Lodovico, contentissimo per la nascita di un maschietto, informa subito il principe che il bambino e Pazienza, ora nuovamente “principessa”, stanno bene e Pietro, che si è trasferito dalla sorella a Spoleto per non aver a che fare con la moglie, rientra a Faenza e sembra convinto che il neonato gli assomigli quanto basta da poter essere considerato suo. Pazienza però non può godere pienamente della maternità; pur avendo lei avuto la “piena del latte”, il figlioletto le è stato sottratto per essere messo a balia, una pratica comune presso le famiglie aristocratiche, ma che, nel suo caso, potrebbe sottintendere un intento punitivo. Mentre vive relegata nell'odiata villa di Prada, a sua insaputa già si sta progettando di richiuderla in convento, dove, dando seguito ai consigli del principe, dovrà avere inizio la sua rieducazione. Così, dopo essere stata costretta a scrivere un'umiliante lettera al padre dicendosi pronta ad accettare la reclusione, il 10 ottobre 1808 Pazienza entra in convento a Bologna dove resterà fino a metà aprile 1809. Per uscire ha dovuto dichiarare il suo “sincero pentimento” al padre e impegnarsi a mantenere “una saggia condotta” al suocero. Il quale, nel frattempo, ha costretto il figlio Pietro a riappacificarsi con lei per evitare che un divorzio comporti la perdita della ricca dote e la rovina economica della famiglia.

Pietro e Pazienza fingono per quieto vivere un'unione di facciata, ma in realtà si odiano. Pazienza tra l'altro ha riallacciato i rapporti con la sorella Beata, da tutti considerata l'artefice della sua “perversione”, e non è escluso, adesso che gode di una maggiore libertà, anche con “l'infame Egisto”. La sera del 5 marzo 1810 i coniugi Laderchi sono attesi a un veglione di carnevale, un evento che Pazienza aspetta con ansia per evadere dalla noiosa routine quotidiana e fors'anche nella speranza di incontrare l'amante. All'ultimo momento, Pietro, accecato dalla gelosia, decide che lei dovrà rimanere a casa. Pazienza reagisce con un gesto disperato: si getta da una finestra nel cortile interno del palazzo, non si sa se per fuggire o per farla finita. La caduta le procura la frattura del femore, ma lei rifiuta ostinatamente il cibo e le visite mediche, anzi, strappa le bende che costringono l'arto compromettendone la guarigione. Dichiara inoltre apertamente il suo odio per i Laderchi e la sua incrollabile volontà di andarsene da Faenza, minacciando nuovamente propositi autolesionistici.

Seriamente preoccupato che la nuora possa compiere altri gesti insensati, Lodovico, dopo una complessa trattativa, fa accompagnare Pazienza a Venezia dove il padre dovrebbe accoglierla per riportarla in patria. Il principe incontra sì la figlia, ma solo per ribadire la sua solita linea: spetta al marito occuparsi della moglie. Poi riparte da solo. Allontanata dalla casa del marito, respinta da quella del padre, Pazienza rimane a Venezia incerta sul suo futuro. Qui la raggiunge Beata e la coinvolge di nuovo nella vita spensierata e gaudente da lei mai abbandonata. Trovandosi a Venezia nello stesso periodo, l'avvocato bolognese Giovanni Piana, amico di Pietro, lo informa con una lettera del comportamento di moglie e cognata: “Il primo giorno che ebbi la sorte di conoscere la bellissima Beatina fui messo a parte di tutti i suoi amori e delle sue avventure... La loro condotta è si vergognosa che gli uomini e le donne più débauchés le nominano con sommo disprezzo... La Pegì veste assai bene, l'altra sembra una vera p... ed ambedue sono il divertimento del ridotto.” Lascia anche intendere che Pegì potrebbe essere stata raggiunta dall'amante. Alcuni mesi dopo Pazienza, prostrata fisicamente dalle coliche e dal vomito causati dall'alcolismo, senza un soldo, impegnati i gioielli, indebitata perfino con le serve, è costretta dalle circostanze a cospargersi il capo di cenere e chiedere al suocero di rientrare in famiglia, con una lettera umiliante scritta probabilmente sotto dettatura del conte Alfonso Porcia, cugino del principe, che vive a Venezia e tante volte ha fatto da intermediario con i Laderchi. Lodovico, condizionato dal rischio di perdere la dote e dal marchio di infamia che gli deriverebbe dall'aver abbandonato la nuora a Venezia nel disordine morale e in cattiva salute, alla fine è costretto a piegarsi al diktat del principe che impone il rientro a Faenza della figlia. Abbandonata dal padre, costretta a ritornare dal marito che la disprezza e le nega di vedere il figlio, e dal suocero interessato solo alla sua dote, in rotta perfino con Beata per questione di soldi e con la prospettiva di essere nuovamente richiusa in convento ad espiare i suoi peccati, Pazienza rientra tristemente a Faenza il 18 marzo 1811.

Nella villa di Prada, dove viene subito trasferita, inizia una straziante agonia: è assalita, scrive Lodovico al principe, “da dolore di testa spasmodico, stiramenti convulsivi, e prende di nascosto una copiosa dose di laudano che ha portato con sé da Venezia.” Non collabora alla guarigione, rifiuta il cibo e allontana i medici, che peraltro hanno ben poco da proporre, se non “senapismi, vescicanti, strofinioni alle gambe con panni caldi... sulfamigi di acqua fetida, anche per uso interno... o per bocca o per cristere.” Mossi da pietà o dal senso di colpa le stanno accanto negli ultimi giorni anche il suocero e il marito. Il prete che le porta i conforti religiosi non riesce a farle ingerire l'ostia a causa dell'irrigidimento della mascella. Muore alle ore 10 del 20 agosto 1811 a soli 18 anni. L'ultimo scempio compiuto sul suo corpo è l'autopsia voluta da Lodovico per dimostrare che si è trattato di morte “naturale”. Dal raccapricciante referto una meningite risulta essere la causa “tecnica”. Quella reale è stata un lento suicidio.

Di Pazienza non esistono immagini. La sua pietra tombale, una lapide marmorea di ottima fattura riscoperta recentemente, ha riportato alla luce la sua storia rimasta ignorata per più di due secoli. L'epitaffio in latino scritto dal poeta neoclassico Dionigi Strocchi, che vi ha inserito un elegante distico elegiaco, la ricorda con accenti dolenti e malinconici:


HOSPES SISTE PARUMPER
PATIENTIA
FRANCISCI SERAPHINI PRINCIPIS PORCIAE F.
PETRI LADERCHI CONIUX
VERE SUB AETATIS LACRYMIS DECORATA MARITI
HIC SITA SUM NATI MATER ABACTA SINU
DIC VALE ET AMBULA

A. MDCCCXI


(O viandante soffermati un poco. Io, Pazienza, figlia di Francesco Serafino principe di Porcia, moglie di Pietro Laderchi, qui giaccio, madre strappata all'abbraccio del figlio nella primavera della vita, onorata dalle lacrime del marito. Dimmi addio e riprendi il cammino. Anno MDCCCXI)

Fonti, risorse bibliografiche, siti su Pazienza Porcìa

"Carte Laderchi” in Archivio di Stato di Faenza presso Biblioteca Manfrediana. Anni 1807-1811

Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche (a cura di), I PORCIA, Atti del Convegno 9 aprile 1994, De Bastiani Editore, Vittorio Veneto, 1994

Rosarita Berardi, I Misteri di Faenza, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2015. pp. 74-83

Remo Ragazzini, L'Inquietante Vicenda di una Principessa in Romagna, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2003

Orintia Romagnoli Sacrati, Per le Faustissime Nozze della Signora Pazienza Nata Contessa Porcia de Brugnera col Signor Pietro Laderchi ANACREONTICA, Vitarelli, Venezia, 1807

Il Prof. Stefano Drei, studioso del neoclassicismo faentino, ha individuato in Dionigi Strocchi l'autore dell'epitaffio e ha riconosciuto le reminiscenze di Ennio e Properzio in esso presenti



Voce pubblicata nel: 2024