Nata a Ferrara l’8 dicembre 1918, Matilde Bassani crebbe in una famiglia di origine ebraica profondamente antifascista, tant’è che amava scherzosamente dire di essere stata allevata a «latte ed antifascismo». Lo zio materno, Ludovico Limentani, fu uno dei pochissimi firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce; il cugino Eugenio Curiel, comunista, direttore de "L'Unità" clandestina e combattente nella Resistenza, fu assassinato dai fascisti nel 1945.
Il padre, Dante, professore di tedesco all’Istituto Tecnico di Ferrara, fu licenziato proprio a causa del suo antifascismo nei primi anni Venti e fu costretto a lunghe peregrinazioni per trovare lavoro, prima a Ceva poi, nel 1924, ad Asti, per tornare infine a Ferrara nel 1929.

Anche Matilde iniziò la sua militanza antifascista mentre ancora frequentava il liceo classico — ebbe come insegnante di greco e latino Francesco Viviani, morto a Buchenwald nel 1945 —, fornendo aiuti agli arrestati attraverso "Soccorso Rosso" e diffondendo volantini di protesta e stampa clandestina nelle fabbriche e nei quartieri; entrò poco dopo nelle fila di un gruppo antifascista, organizzato dalla maestra socialista Alda Costa, di cui faceva parte anche il cugino e futuro scrittore Giorgio Bassani.

In Matilde qualcuno ha voluto riconoscere la Micol ritratta nel Il giardino dei Finzi Contini (1962) dello stesso Bassani: in virtù del suo impegno, che l'ha portata anche a conoscere, come vedremo, l'esperienza del carcere, e di una certa libertà e intelligenza che Matilde, come Micol esprimono. Pare tuttavia che questa identificazione non coincida affatto con la realtà.

Dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, proprio insieme a Giorgio Bassani, allora neolaureato all’Università di Bologna, e ad altri ebrei come Vito Morpurgo, Matilde — a quell’epoca studentessa di lettere all’Università di Padova — si fece carico dell'insegnamento ai bambini e ai ragazzi della comunità ebraica ferrarese che non potevano più frequentare le scuole pubbliche, organizzando presso la scuola ebraica di via Vignatagliata un Asilo Infantile e una Scuola Elementare e preparando i ragazzi delle medie per sostenere gli esami di fine anno presso le scuole pubbliche. Soprattutto, quello che si proponeva era riuscire a ripristinare in quei ragazzi, cacciati dalle scuole pubbliche, l’autostima e la fiducia in se stessi, cercando di far vivere loro l’esclusione dalla vita collettiva non come un fatto personale, ma come una delle tante ingiustizie di un governo nato dalla violenza. Il regime reagì precettando il gruppo di insegnanti e inviandoli al lavoro coatto presso il reparto estero del Consorzio Agrario Provinciale, a preparare cassette di patate per la Norvegia. Anche in questa occasione Matilde dimostrò doti di inventiva e resilienza: bucava le patate in modo che marcissero tutte e poi metteva nel buco un biglietto con messaggi scritti in inglese che descrivevano ciò che avveniva in Italia a danno degli Ebrei.

Mentre frequentava l’università (dove si laureò nel 1940 in lettere e filosofia, ottenendo pieni voti ma non la lode, per il fatto di essere ebrea), teneva i contatti tra i gruppi antifascisti padovani (diretti da Concetto Marchesi e Norberto Bobbio) e quelli ferraresi, che facevano capo a Francesco Viviani; ma l'11 giugno 1943 viene arrestata con l’accusa di azione sovversiva per aver affisso la sera prima manifesti in ricordo di Giacomo Matteotti, nell'anniversario dell'uccisione del deputato socialista.
Subisce estenuanti interrogatori, ma reagisce effettuando lo sciopero della fame e quello dell’ora d’aria. Liberata alla caduta del fascismo, il 25 luglio, riprende la sua attività di propaganda.

Dopo l’armistizio, con l’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, per gli antifascisti e per gli ebrei la situazione andò peggiorando: il 9 novembre sua madre venne avvisata: c’erano retate in corso, e per Matilde sarebbe stato meglio non tornare a casa; così la ragazza fugge in bicicletta a Rubiera, e da lì prende un treno per Roma.
Nella capitale, entrò presto in contatto con i gruppi di lotta del Partito socialista di unità proletaria (Psiup), diventando una partigiana combattente sotto il falso nome della cugina Giuliana Sala (emigrata in America). A Roma conobbe anche il suo futuro marito, Ulisse Finzi (che sposerà il 4 aprile 1945), e insieme a lui fu tra i promotori del Comando Superiore Partigiano, che metteva in atto azioni belliche e sabotaggi, diffondeva la stampa clandestina e manteneva i contatti con l’Italia centro-settentrionale. Una delle azioni più pericolose e riuscite alla quale Matilde partecipò riguardava il trasporto di armi ai partigiani fiorentini della Brigata “Bruno Buozzi”, una missione determinante per la liberazione di Firenze; ma si rese protagonista anche di vere e proprie beffe nei confronti dei tedeschi, come quando riuscì a sottrarre medicine e altro materiale ai nazisti, spacciandosi per attivista della Croce Rossa. Il 24 marzo 1944, uscendo dal Vaticano dove era andata per chiedere ospitalità per due rifugiati polacchi, fu fermata dalle SS e dalla polizia fascista, ma riuscì a sfuggire alla cattura.

I tedeschi mi ferirono ad un ginocchio, ma riuscii a fuggire: un gruppo di suore con alcuni bambini fecero muro tra me e i tedeschi e un operaio si tolse il fazzoletto dal collo e lo usò per fasciarmi il ginocchio. I tedeschi mi avevano però strappato la borsetta che conteneva una lettera per la fedele donna di servizio della zia Adelina, in cui davo mie notizie perché le riferisse alla mia mamma, a mio fratello Bruno e al nonno Gilmo. Vagai di casa in casa cercando aiuto, in una Roma atterrita dall’eccidio delle Fosse Ardeatine…

Angosciata e impaurita bussò, alla fine, alla porta degli Ospedali Riuniti di Roma, dove direttore del reparto delle malattie infettive era il dottor Giuseppe Caronia, che durante l’occupazione ricoverò nel suo reparto decine di fuggitivi, tra cui numerosi ebrei.

Questi episodi e altri furono raccontati durante la guerra da Radio Londra in una trasmissione intitolata: "Un’insegnante combattente". Eppure Matilde Bassani fu costretta a rivendicare energicamente la partecipazione alla Resistenza quando nel 1948 si accorse con stupore che la commissione per il riconoscimento di Partigiano Combattente non le aveva riconosciuto quel ruolo. Nella lettera di ricorso esigeva, “come [era suo] diritto» di essere riconosciuta quale partigiana. E concludeva la missiva così: «Dopo quanto sopra esposto sono ben certa che mi verrà quanto prima riconosciuto il titolo di partigiana combattente e mi verrà forse anche domandato scusa della dimenticanza». E, in seguito alle sue rimostranze, lo status di partigiana combattente le fu riconosciuto con il grado di comandante, il 15 novembre 1949.

La sua attività continuò dopo il 4 giugno 1944 nella Roma liberata, dove collaborò con l’Oss, il servizio segreto americano, svolgendo operazioni di collegamento con gli Alleati e partecipò alle attività dell’Ufficio per la guerra psicologica, a favore della lotta antifascista nelle regioni sotto occupazione, realizzando giornali che venivano paracadutati dall’aviazione nei territori ancora occupati e trasmissioni radiofoniche di propaganda antifascista. Di rilievo anche la sua opera di sostegno ed assistenza ai partigiani.

Dopo la guerra, Matilde Bassani e Ulisse Finzi si trasferirono a Milano dove Ulisse riprese la sua attività di pellicciaio. Ebbero tre figli: Enrico (1946, che diventerà uno dei più brillanti sociologi italiani), Paolo (1951-2020) saggista e militante anarchico e Valeria, attiva nell'Udi (Unione Donne Italiane).

Matilde lavorò in campo sociale. Promosse la creazione dei servizi sociali distrettuali, e operò nel "Villaggio della Madre e del Fanciullo", fondato da Elda Mazzocchi Scarzella e presso l’ente ausiliario per il Tribunale dei Minorenni. Dopo aver ripreso gli studi ed essere diventata psicologa, si iscrisse alla Società italiana di sessuologia clinica e all’albo dei terapeuti familiari e si occupò di rapporti genitori-figli e di problemi di sessuologia.
Per decenni collaborò con le organizzazioni laiche che si battevano per il divorzio e l'aborto e con il Centro di educazione matrimoniale e prematrimoniale (Cemp) e sostenne organizzazioni come l’Associazione per il bambino nefropatico (Abn): in memoria del marito Ulisse finanziò anche la ristrutturazione del reparto di Nefrologia e dialisi della clinica pediatrica "De Marchi" di Milano.

Dal 1970 al 1979 ricoprì la carica di vicepresidente dell’Unione Femminile Nazionale, svolgendo inoltre un intenso lavoro presso la Scuola dei Genitori, ospitata nella sede dell’Ufn. Sempre negli anni Settanta divenne consigliera del Consiglio Nazionale Donne Italiane (Cndi), promuovendo in particolare l’adozione delle leggi sulla parità salariale, il diritto alla maternità, la costituzione di servizi sociali, asili nido e consultori. Tenne inoltre corsi di educazione sessuale presso circoli popolari e scuole pubbliche.

Morì a Milano il 1° marzo 2009 ed è sepolta nel cimitero ebraico di Mantova.

Nel 2025, all’interno del giardino del liceo Ariosto di Ferrara, di cui è stata studentessa negli anni Trenta, le è stata dedicata una lapide su cui sono state incise, per volere della figlia, queste parole:

Desidero che voi impariate a memoria brani di greco, latino, Dante e di altri poeti per affrontare i momenti più duri che arriveranno perché la cultura sarà il salvagente di vita per il vostro futuro.


Fonti, risorse bibliografiche, siti su Matilde Bassani Finzi


Valeria Finzi (a cura di), Matilde Bassani Finzi partigiana. Documenti 1943-45, [raccolta documenti ed elaborazione testi di Barbara Livecchi], Edizione privata, Milano, 2004.

Anna Maria Quarzi, Donne e Resistenza. Intervista a Matilde Bassani Finzi, in "Ferrara. Storia, beni culturali e ambiente", 6-7, gennaio - aprile 1997, pp. 88-91

Fondo Matilde Bassani Finzi, in Unione Femminile Nazionale.


Voce pubblicata nel: 2025